Voglio portare un contributo per questo 8 marzo, visto che l’interesse per la memoria si è sempre manifestato all’interno dell’attività dell’Istituto storico e si è andato rafforzando, nel corso degli anni, dalla pratica del lavoro della ricerca e della costruzione di un archivio; ne è protagonista – certo – la memoria della Resistenza; una memoria – indubbiamente – frutto di una costruzione consapevole e di un paziente, minuto, lavoro quotidiano. Ed è importante di questi tempi richiamare la memoria: perché – come osservava Arrigo Levi – non è vero che in Italia vi sia un’overdose di memoria e di commemorazione, c’è semmai una memoria troppo corta o soltanto troppo formale. Oggi l’Istituto storico ha messo in rete una sorta di archivio virtuale che contiene testimonianze orali, interviste in audio-video, filmati, fotografie, documenti, mappe e testi, in senso più lato “memorie” della Guerra e della Lotta di Liberazione. E anche testimonianze di molte donne presenti con la loro intervista e mi riferisco alle testimonianze limpide e significative di Teresa Cheirasco, Rina Gennaro, Lelia Magnanini, Bianca Paganini.
Ma oggi vorrei celebrare l’8 marzo ricordando donne del Risorgimento e della Resistenza, partendo da un mio intervento del novembre 2011 in occasione dei 150^ anni dell’Unità d’Italia.
Direi che un fil rouge unisce il Risorgimento alla Resistenza – vista da molti storici come un secondo Risorgimento – donne che influiscono nelle due epoche sul corso degli eventi con il loro sacrificio e la loro abnegazione con la quale lottano. Il motivo? Realizzare un’impresa che sembrava un’utopia: unire l’Italia superando i confini dell’appartenenza sociale e territoriale. Combattere al pari degli uomini quando ancora la parità era al di là da venire.
Nei titoli di coda del Risorgimento ci sono solo nomi al maschile: Giuseppe Mazzini, Camillo Benso, conte di Cavour, Giuseppe Garibaldi, Massimo D’Azeglio, Carlo Pisacane, Vittorio Emanuele II. Re, eroi e faccendieri. Facevano loro l’Italia. Qualche volta anche a pezzi, direi. Se si nominano i carbonari, la mente va subito ai valori patriottici e liberali dell’associazione segreta – la Carboneria – che ai primi dell’Ottocento getta le basi per l’Unità d’Italia. Questi sono i padri della patria, le cui prodezze sono descritte in tutti i libri di storia.
Ma le madri della patria? Le protagoniste invisibili dell’unità, chi sono? Erano dietro le barricate e non le abbiamo «viste». Quelle che, per i libri di storia, sono soltanto la compagna dell’eroe: Anita Garibaldi, la più conosciuta eroina del Risorgimento italiano, sposa dell’Eroe dei due mondi – che conobbe nel 1839 – e ne diventa amante, sposa, madre dei suoi figli e compagna di tutte le sue battaglie. Anita dedica la sua vita alla libertà e all’indipendenza dei popoli. Per non lasciare il marito si traveste da uomo, si taglia i capelli, indossa l’uniforme e con lui combatte il nemico sino alla fine. O la femmina fatale: la contessa di Castiglione Virginia Oldoini Verasis, nostra concittadina, a cui Cavour chiese di diventare l’amante dell’imperatore di Francia. Un invito che è accettato volentieri dalla contessa: famosa per la sua bellezza e il libertinaggio, diviene così per un breve periodo, dal 1858 all’inizio del 1859, la stella di Francia. O la «Mater dolorosa»: la milanese Adelaide Cairoli, madre di cinque figli; quattro cadono da volontari, il superstite diventa presidente del Consiglio dagli anni 1878 fino al 1881. Non diversamente, la donna della Resistenza evoca staffette partigiane, fughe in bicicletta, messaggi nascosti nei corsetti.
Non è andata (solo) così. Nel Risorgimento, come nella Resistenza, le donne spesso sono combattenti, armi in pugno. O sono leader politici. È consolatorio pensarle come crocerossine solerti, mamme premurose, spose in pena. Invece le donne influenzano gli eventi, stilano proclami, raccolgono fondi, prendono le decisioni, danno ordini ai maschi. “Donne in cerca di guai”, si diceva… unite proprio dal non essere uomini. Aristocratiche e popolane, su al Nord e giù al Sud e persino di altri Paesi. Belle o poco avvenenti, eleganti o trasandate, tutte, inevitabilmente, intelligenti, caparbie e affamate di sapere. Anche quelle che non sapevano leggere. Cucivano coccarde, guidavano rivolte, incitavano i compagni. Senza di loro l’Italia sarebbe stata diversa. Sono donne che dal Risorgimento hanno dato e preso e che cosa? La consapevolezza di valere.
La storia restituisce i nomi di molte donne, sono state migliaia, che nell’Italia preunitaria, borghesi o popolane mandate sotto processo, talvolta in esilio, in carcere, anche sul patibolo. E nel 1848 salgono sulle barricate. A Milano, i salotti dell’alta società vengono definiti giardini e sono animati da donne, le giardiniere appunto, come Bianca Milesi, una borghese, pittrice e femminista, una donna battagliera, allieva di Canova e amica di Hayez, che non solo disegna l’emblema tricolore del battaglione Minerva nel quale si arruolano gli studenti di Pavia, ma arriva addirittura a inventare la cosiddetta carta stratagliata con cui i congiurati comunicavano secondo il sistema crittografato. Un foglio di carta bianco con dei tagli orizzontali che permettevano di leggere messaggi segreti in testi apparentemente normali.
Sono patriote, come le donne della Resistenza; in una società come quella ottocentesca – e non solo -che affidava alla donna sostanzialmente i ruoli di moglie e di madre. Così anche nella Resistenza. Donne che si vestivano da uomo per partecipare all’impresa dei Mille, scendevano in piazza durante le Cinque giornate di Milano, aprivano le porte dei loro salotti per accogliere i pensatori e permettere ai patrioti di organizzare piani di liberazione. E rischiavano la vita passando il confine per portare in mezzo alle loro vaporose capigliature messaggi cifrati.
Ma non erano solo messaggere e consigliere, le donne del Risorgimento erano anche combattenti disposte a perdere la vita in battaglia o a morire sotto la mano dei soldati pontifici. Sono donne che sacrificano la loro vita ma a cui spesso si attribuisce una bramosia di potere, una volontà quasi narcisistica di apparire imbellettate nei salotti importanti più che un vero spirito patriottico. Come quello che impegnava Olimpia Rossi Savio, l’icona torinese dei salotti risorgimentali. Nel 1859 perde due figli durante la seconda guerra di indipendenza e sempre si adopera per sostenere la causa, tanto che nel 1862 Garibaldi, al suo arrivo a Torino, la saluta come madre del Risorgimento.
Di lei e di Adelaide Cairoli Garibaldi ebbe a dire: «L’amore di una madre per i figli non può nemmeno essere compreso dagli uomini. Con donne simili una nazione non può morire».
Pensate che molto più tardi «Senza le donne non ci sarebbe stata la Resistenza» afferma Arrigo Boldrini (Bulow), Medaglia d’oro della Resistenza.
Ci sono donne con nomi che non finiscono mai: Cristina Trivulzio di Belgiojoso o Giuseppa Bolognara Calcagno, Peppa la cannoniera. Una nobildonna milanese e la trovatella siciliana. I salotti dell’aristocrazia e le osterie mal frequentate. Cristina che combatte il suo piccolo mondo antico, Giuseppa che cresce, lavora, impara e dice «chi pecora si fa, il lupo se lo mangia». Serva, stalliera, con gli uomini, meglio di un uomo. È grazie al suo eroismo che nel maggio 1861, a Catania, riesce a tener testa a un nutrito manipolo di soldati borbonici. La sua storia scovata, lucidata è raccontata da Dacia Maraini. Ma il personaggio più straordinario è Cristina Trivulzio di Belgiojoso, giornalista, viaggiatrice e femminista, oltre che paladina del progressismo (promozione dei diritti civili e sociali, da acquistare però tramite riforme progressive, anziché tramite una rivoluzione anarchica o socialista nata negli Stati Uniti d’America) e dell’unità nazionale intellettuale, la principessa ritratta da Hayez, che ispira a Stendhal la duchessa Sanseverina de La Certosa di Parma, porta da Napoli in Lombardia un battaglione di duecento uomini per combattere gli Austriaci, perde i beni sequestrati da Radetzky, scende a Roma dove recluta centinaia di infermiere insieme con Giulia Bovio Paolucci ed Enrichetta di Lorenzo, colta e curiosa, compagna di Carlo Pisacane («meretrici infami», secondo i giornali del Regno borbonico).
Purtroppo non vedremo mai fiction su di loro. Non su Clara Maffei, amica di Verdi e Manzoni. Non sulle ragazze che nel 1848 fondarono i loro primi giornali: La donna italiana a Roma, La Tribuna delle donne a Palermo, Il circolo delle donne italiane a Venezia.
Ma non si faranno fiction neppure su Cleonice Tomassetti, massacrata nell’eccidio di Fondotoce (oggi Verbania Cusio Ossola), il 20 giugno 1944, maestra. Era la sola donna del gruppo di 43 partigiani, fucilati dai nazifascisti a Fondotoce o su Gabriella Degli Esposti fucilata a San Cesario sul Panaro (Modena) il 17 dicembre 1944, coordinatrice partigiana con il nome di battaglia di “Balella“, Medaglia d’oro al Valor militare alla memoria o Iris Versari suicidatasi per non essere presa prigioniera e le altre martiri combattenti della Resistenza; come Irma Bandiera, che accetta una fine crudele davanti alla casa dei suoi figli pur di non rivelare i nomi dei compagni.
Ma quando si parla della piena partecipazione femminile alla vita politica e sociale del nostro Paese, – va subito detto – che le basi per l’emancipazione femminile furono senza ombra di dubbio gettate negli anni gloriosi del 1943-1945 perché è stata data la possibilità alle donne di essere inserite nella carta fondamentale della Repubblica per ottenere la piena uguaglianza dei diritti. Mi piace ricordare che furono le veneziane – il 21 ottobre 1866 – a manifestare in piazza San Marco per chiedere il diritto di voto; non volevano regalini dal Re (pensate, Re Vittorio Emanuele II, che amava le donne non le vedeva in battaglia o in Parlamento e per questo ricompensava le patriote con un anello bianco, rosso e verde). Volevano fare politica. Avrebbero dovuto attendere ottant’anni, fino al 1946: troppo. Se fossero state ascoltate, oggi forse l’Italia sarebbe diversa.
Il fascismo ha fatto pagare alla donna un altissimo prezzo di umiliazione e di sacrificio, la Resistenza ha dato alla donna il senso di quanto poteva contare, il coraggio che poteva esprimere e la forza di sostenere le battaglie (anche nella donna del Risorgimento è presente questa consapevolezza del valere). Non sono soltanto mogli, madri, sorelle di partigiani: sono le prime a scendere in piazza, sono quelle che urlano più forte: per l’aumento del salario, per il ritorno dei figli dal fronte, per dire basta guerra. Le parole d’ordine dei grandi scioperi sono pace, pane, libertà. Pace, prima di tutto, come condizione necessaria a instaurare benessere e democrazia. E per questo non va dimenticato che i giorni durissimi della guerra sono anche i giorni in cui tutta la tematica dell’emancipazione femminile viene abbozzata nelle sue linee generali: la rivendicazione dei diritti politici, della parità nella scuola e nel lavoro.
C’è un volume di nostre concittadine Anna Valle e Annalisa Coviello, Anch’io ho votato Repubblica (Edizioni Giacché, 2008) – tra l’altro ricco di prezioso materiale iconografico conservato negli archivi dell’UDI o presso Istituzioni pubbliche – proprio con l’intento di ricordare, di non dimenticare, di richiamare alla mente, attraverso la fotografia, personaggi ed eventi della nostra storia. Contiene importanti spunti sul percorso storico delle donne verso la conquista della piena cittadinanza. Come del resto suggerirei la lettura del bel libro “La resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi“, a cura di Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina. Memorie della Resistenza… dalla parte di lei (Bollati Boringhieri, 2016). Il libro riunisce le testimonianze autobiografiche, raccolte in interviste registrate, di dodici donne partigiane piemontesi: Nelia Benissone, Lucia Canova, Albina Caviglione, Anna Cinanni, Teresa Cirio, Tersilla Fenoglio, Lidia Fontana, Rita Martini, Elsa Oliva, Rosanna Rolando, Maria Rovano e Maria Rustichelli.
Per un maggiore approfondimento di storia locale e per conoscere donne che hanno lottato per un mondo migliore, consiglierei di leggere il libro “Sebben che siamo donne. Resistenza al femminile in IV Zona Operativa, tra La Spezia e Lunigiana” di Giorgio Pagano e Maria Cristina Mirabello (Edizioni Cinque Terre, 2017).
Chiamate dalla storia a combattere in un mondo in sfacelo, queste donne si esposero senza esitare a tutti i rischi della guerra partigiana. I valori e i caratteri del mondo femminile, sviluppatisi durante la millenaria soggezione e in risposta a questa, diedero anche alla nostra Resistenza una ricchezza che non avrebbe raggiunto altrimenti.
“Ricordo che negli interrogatori che ho subito a Bolzano da parte dei nazisti mi hanno chiamato per la prima volta “ribelle”. Ebbene mi son detta: “Io sarò sempre ribelle, è una parola che mi piace, lo sarò sempre…” a parlare è Elsa Oliva, partigiana “Elsinki”, attiva nelle brigate partigiane dell’Ossola.
Ma la guerra delle donne inizia l’8 settembre del ‘43: non è guerra di aggressione (o umanitaria, o preventiva) ma di resistenza, resistenza civile e resistenza partigiana, senza armi e con le armi. Da subito la Resistenza delle donne si articola in queste due modalità, senza armi e con le armi. Scrive Anna Bravo, docente di storia sociale e storica delle donne, che “è resistenza civile quando si tenta di impedire la distruzione di cose e beni ritenuti essenziali per il dopo, o ci si sforza di contenere la violenza intercedendo presso i tedeschi, ammonendo i resistenti perché non bisogna ridursi come loro, quando si dà assistenza in varie forme a partigiani, militanti in clandestinità, popolazioni, o si agisce per isolare moralmente il nemico; quando si sciopera per la pace o si rallenta la produzione per ostacolare lo sfruttamento delle risorse nazionali da parte dell’occupante; quando ci si fa carico del destino di estranei e sconosciuti, sfamando, proteggendo, nascondendo qualcuna delle innumerevoli vite messe a rischio dalla guerra”.
Non che prima le donne non conoscessero la guerra: dal ‘40, da oltre tre anni, conoscono fame e stenti, dolore e lutti. Per le donne ebree, poi, la guerra è iniziata ancora prima, nel ‘38, con le leggi razziali.
Particolare rilievo merita la presenza di donne, talvolta giovanissime, nelle fila della Resistenza, nel movimento partigiano sia in città che in montagna, una rete di donne che garantisce servizi essenziali, come si legge da un brano di Laura Fratini, prima donna Assessore del Comune della Spezia, eletta nel 1945 nella Giunta del Comitato di Liberazione Nazionale e l’anno successivo candidata alla Costituente.
Caratteristica fondamentale della Resistenza femminile, che è stato uno degli elementi più vitali della Guerra di Liberazione, è proprio il suo carattere collettivo, quasi anonimo, il suo avere per protagoniste non creature eccezionali, ma vaste masse appartenenti ai più diversi strati della popolazione, questo suo nascere non dalla volontà di poche, ma dalla iniziativa spontanea di molte. I primi corrieri e informatori partigiani sono state le donne. Inizialmente portavano assieme agli aiuti in viveri e indumenti le notizie da casa e le informazioni sui movimenti del nemico. Ben presto questo lavoro spontaneo viene organizzato, e ogni distaccamento si crea le proprie staffette, che si specializzano nel fare la spola tra i centri abitati e i comandi delle unità partigiane.
Se leggiamo alcune interviste di Annalisa Coviello, notiamo subito che “le ragazze degli anni Venti”, commosse nel loro racconto, sono forti nella consapevolezza di essere riuscite in una grande impresa. Alcune hanno partecipato alla Resistenza, più o meno protagoniste, ma certamente risolute. Volontarie, pronte ad affrontare rischi e fatiche come gli uomini, animate da uno spirito combattivo che spesso faceva stupire gli stessi compagni di lotta.
Abbiamo detto che il fascismo ha fatto pagare alla donna un altissimo prezzo di umiliazione e di sacrificio (lo ricordano la maggior parte delle donne intervistate e voglio riferire quanto dice per es. Maria Magnanini Bruni: “Papà era socialista, di quelli all’antica. Non era facile durante il fascismo. Spesso veniva picchiato e anch’io ho dovuto subire la mia dose di umiliazioni. A scuola, il maestro mi metteva all’ultimo banco, da sola, e mi interrogava sempre. Poi ammetteva a bassa voce: “Però quella stupida figlia di un bolscevico è brava” oppure quanto dice Anna Maria Vignolini: “Per il fascismo noi donne valevamo meno di niente”.) È evidente che l’avvento del fascismo annulla per vent’anni non soltanto le libertà ma anche – e soprattutto – ogni possibilità di corretta e giusta funzione sociale della donna.
Nella donna, forse per natura schiva a partecipare in un primo momento alla lotta armata, sempre pronta a rifuggire la violenza, è però presente un antifascismo spontaneo che si trova in molte manifestanti, soprattutto quelle del ’43 (come Lina Fratoni) e del ‘44, che promuovono varie forme di mobilitazione e con il passare dei mesi intensificano scioperi, azioni di sabotaggio e lotte contro le deportazioni in Germania. Mettono assieme, se pur disordinatamente e istintivamente, quella voglia di libertà, il desiderio di nuove aggregazioni, il senso patrio, l’esigenza di esercizio di nuovi diritti e nuovi doveri politici.
In quest’ambito la funzione della donna è essenziale: la maggior parte delle donne esprimono una carica di entusiasmo genuino quanto ricco di implicazioni che testimonia l’abbandono di una presenza puramente e semplicemente familiare per una presenza partecipativa, sia pure ancora povera di contenuti ideologici.
Altro aspetto importante che si ritrova nelle donne di questo periodo è una sorta di antifascismo politico vero e proprio. Ha un suo corso naturale, nasce in famiglia dove spesso il genitore è un perseguitato del regime (si leggano le testimonianze di Maria Cervia Botturi, di Rina Bruzzone, di Anna Maria Vignolini per es.), si sviluppa nei Comitati di difesa della donna e nelle organizzazioni di partito, si caratterizza come attività di propaganda e di diffusione di materiale pubblicistico vario (volantini, comunicati, giornali). La donna più politicizzata agisce su due fronti, all’interno dei Comitati esclusivamente femminili e dei Comitati politici che presiedevano alle attività collaterali dei Gap e delle Sap (che facevano la staffetta partigiana come Caterina Spora, Wilma Fucini per es.).
In alcuni documenti diffusi dai Comitati di difesa della donna si parla della necessità di “coagulare” (è proprio questo il verbo usato) “le forze attive nel campo politico e nella lotta clandestina”; che significava? Significava assegnare alla donna della Resistenza un nuovo ruolo importantissimo e, in un certo senso, decisivo: quello di saper unificare le aspirazioni delle donne militanti nelle varie forze e componenti politico-sociali non in senso separatistico o corporativo ma in stretto collegamento con le aspirazioni di tutti.
L’antifascismo femminile militare è l’aspetto più originale della presenza della donna nella Lotta di Liberazione. Certo la scelta delle armi è sempre dolorosa (alcune non la compiono) “Non ho sparato, ma la guerra l’ho fatta eccome” sostiene Carolina Masini Colombo, ma talvolta è una scelta ineludibile. Il rapporto con le armi passa attraverso un sentimento di rivolta: è quel “quando è troppo è troppo” che leggiamo in più di una memoria, è l’ingiustizia divenuta intollerabile, è l’urgenza di porre fine al fascismo e alla guerra.
Utilizzando le armi, le donne invadono il ruolo maschile (perché le armi sono pensate dagli uomini per gli uomini), ma non ne fanno un oggetto di presunzione, bensì di estrema necessità, in una contingenza storica eccezionale. “Non mi è mai piaciuto vedere gli altri cadere, anche se erano il nemico”, scrive Laura Seghettini, partigiana combattente nella 12^ Brigata Garibaldi a Parma e compagna di “Facio” e “Non è per odio per nessuno che si deve fare”, dicono nelle loro memorie altre donne.
Molte le partigiane combattenti e le patriote (ne cito alcune fra le 200 nella provincia della Spezia, come Fiamma, Luisa, Vera) che partecipano alle azioni, svolgono per il 100% il lavoro di staffette fra la città e la montagna, fra i comitati periferici e i comandi militari (un caso più lampante ed eroico è quello di Lydia Lalli “Kira”, caduta in combattimento, militante della Brigata Muccini).
Una considerazione: se è vero che la dialettica politica non è mai mancata nel movimento resistenziale (talvolta anche aspra e drammatica) è altrettanto vero che i Comitati di difesa della donna o le forme associative femminili nate dopo la Liberazione, come l’UDI, hanno avuto caratteristiche squisitamente unitarie (cattoliche, comuniste, socialiste, azioniste senza partito) senza che mai si siano verificati prevaricazioni, settarismi, divisioni.
C’è assenza di odio – nella donna della Resistenza – è un tratto importantissimo, così come la partecipazione al dolore delle vittime incolpevoli. Altro distinguo forte e significativo è la pietas: Ada Gobetti cerca il turbamento sul viso del figlio davanti alla morte del nemico (guai, se non ci fosse) e Vitalina Lassandro, a proposito delle uccisioni, afferma che “non avere disgusto di queste cose significherebbe non avere sensibilità neanche per il bene”.
Le donne portano a compimento una gigantesca opera di travestimento, maternale, che esalta il loro ruolo di madri, che curano e consolano (così è, per esempio, per “Mamma Agnese”, la protagonista dell’Agnese va a morire di Renata Viganò). Ed è una maternità collettiva, portatrice di pace, di cui gli uomini sono ben consapevoli: “Le donne pareva che volessero coprirci con le sottane: qualcuna più o meno ci provò” scrive Luigi Meneghello nei Piccoli maestri, romanzo autobiografico dell’esperienza partigiana dell’autore.
Ciò sta a significare che la donna aveva capito, con un intuito politico davvero eccezionale e preveggente, che soltanto con un’onesta, profonda, libera e articolata unità morale e politica era possibile conquistare una nuova condizione sociale in cui i doveri e i diritti di cittadina si fondano e si arricchiscono vicendevolmente nell’esercizio quotidiano della libertà. E quando il Parlamento, con la nuova legge elettorale, concede il voto alle donne, esse lo vivono con grande entusiasmo e perché no, anche con tanta curiosità, ma soprattutto con molta, molta responsabilità.
Fu una gioia collettiva, di tanti amici e di molte famiglie. Per la prima volta potevano scegliere tra Monarchia e Repubblica ed eleggere i componenti e le componenti dell’Assemblea Costituente.
Erano trascorsi più di 70 anni dalla prima richiesta di suffragio universale! Queste donne vissero quello straordinario momento con l’emozione e il trasporto della prima volta, con il piacere quasi fisico del riscatto dalla sofferenza e dall’umiliazione: votare era come riprendere a vivere, a sorridere, a ballare, a sentire la musica. Fu un momento magico per la democrazia.
Dalle “ragazze degli anni Venti” tocca alle ragazze di oggi prendere il testimone e preparare il futuro, senza smettere di cercare, di sperimentare pensieri ed idee audaci, con coraggio e intelligenza, verso sempre più ampi e concreti traguardi di libertà condita, come spesso affermava l’indimenticabile Presidente Pertini, con un’ampia e rilevante giustizia sociale.
Patrizia Gallotti, ISR La Spezia