di Valerio Martone e M. Cristina Mirabello
Il 25 aprile è, sinteticamente: anniversario della Liberazione, festa della Resistenza, conclusione di una fase tragica della storia del nostro Paese e premessa necessaria per quella che sarà la Costituzione Repubblicana.
L’8 settembre vede il dissolvimento dello Stato ancora permeato da quel Fascismo che ha trascinato colpevolmente e scelleratamente l’Italia nella Seconda Guerra Mondiale, un conflitto che, secondo le idee hitleriane, avrebbe dovuto risistemare complessivamente l’Europa e il mondo, seguendo i dettami di un’ideologia basata sulla razza e sulla violenza.
Ma gli obiettivi nazisti risultano stracciati dopo quasi sei anni di guerra (1 settembre 1939-8 maggio 1945), dopo immani sacrifici, spargimenti di sangue, barbarie di ogni tipo, fra cui l’esempio dei campi di sterminio nazisti costituisce forse l’episodio più efferato e comunque eclatante.
Per l’Italia, però, i limiti temporali sono diversi: ci interessa sottolineare in questo caso non tanto l’inizio della guerra che per il nostro Paese è il 10 giugno 1940 quanto la fine di essa, che noi Italiani abbiamo deciso di collocare il 25 aprile 1945 non solo perché tale data coincide con quella dell’insurrezione generale proclamata dal C.L.N., ma anche perché ciò rende conto del fatto che, mentre gli altri popoli europei furono nel frangente della Seconda Guerra Mondiale aggrediti, noi Italiani fummo aggressori. E perciò il nostro cammino di “autocoscienza” fu più complesso, tanto che per noi il 25 aprile è stato- per essere più precisi- ha dovuto essere non solo la sconfitta del Nazismo ma anche quella del Fascismo, un fenomeno tutto interno e con cui solo la Resistenza ci ha consentito di chiudere i conti.
Dice bene a questo proposito A.Manzella “Quando gli Italiani scelsero un giorno diverso da tutti gli altri europei per ricordare la guerra più grande [ndr: la II Guerra mondiale, la cui fine è festeggiata in Italia il 25 aprile], compirono un atto di umiltà e di dignità insieme. Di umiltà perché riconobbero che non potevano condividere memorie con gli altri paesi, dal momento che in tutto il mondo “fascismo” era parola italiana. Di dignità, perché vollero indicare che, nella culla del fascismo e nella terra del suo più largo consenso, c’era stata una specifica via nazionale di contrasto e di alternativa….Data nostra anche perché la resistenza italiana, attiva o passiva al fascismo, aveva avuto un suo carattere specifico. Per gli altri paesi di Occidente era stato un fatto politico-militare di liberazione, per tornare ad una loro consolidata democrazia. Per noi, che avevamo avuto un consenso di massa al fascismo, fu diverso. L’insurrezione, come ha scritto Giorgio Bocca, fu totalmente politica, perché coincideva con la fabbrica di una democrazia. Quella democrazia di massa che non avevamo mai conosciuto. La Resistenza fu dunque anche e soprattutto una prima fase costituente, la premessa e la promessa di una Costituzione democratica”. A. Manzella, La Costituzione antifascista, in La Repubblica, 25 aprile 2005.
È la Resistenza che ha reso possibile il 25 aprile
Per arrivare al 25 aprile, con le articolate valenze di esso sopra delineate, è stato appunto necessario quel fenomeno di popolo che va sotto il nome di Resistenza. A questo proposito molti discutono se la Resistenza sia stata fenomeno ampio, popolare appunto, o invece elitario. Dipende da che cosa vogliamo definire come Resistenza. Infatti va subito detto che, per intendere correttamente la sua portata, occorre considerare le moltissime sfaccettature della Resistenza per la quale si può parlare di una sorta di stratificazione in cui le varie componenti, da considerarsi in modo non schematicamente gerarchico ma come tutti concorrenti al risultato finale, sono state:
-la Resistenza civile, spesso finalizzata al mantenimento della vita e che tuttavia in quei drammatici frangenti si colora di piccole e grandi disobbedienze, ponendo un distacco dalla martellante propaganda fascista del Ventennio e post 8 settembre 1943;
-la prima Resistenza militare all’8 settembre 1943 con la quale, nonostante la pressoché completa assenza di ordini, reparti dell’esercito si opposero ai Tedeschi sia in Italia che in terra straniera, basti pensare per esempio a quanto accaduto a Cefalonia e nelle isole greche ( v. voce viale Combattenti di Cefalonia, Corfù e Isole greche nel presente Stradario) e pagarono durissimamente tale atteggiamento;
-il rifiuto di migliaia di soldati di venire meno al giuramento fatto al re, il loro confinamento nei lager e campi di lavoro tedeschi cui seguì per molti, fra i 20 e 30 mila, la morte;
-il fatto che il 9 settembre 1943 la Marina Militare, nella figura dell’ammiraglio Bergamini, mantenendo fede al giuramento al re e agli ordini ricevuti, mosse le ancore dal porto della Spezia per consegnarsi agli Alleati a Malta, riportando in tale operazione perdite ingentissime (v. affondamento della corazzata “Roma”);
– l’azione delle donne, dapprima infaticabili fiancheggiatrici e pietose soccorritrici dei soldati che, sbandandosi all’8 settembre, cercarono un rifugio e vesti civili; ed ancora sempre la Resistenza delle donne che proseguirono su questa strada nascondendo, tacendo, vigilando, diventando staffette e porta-ordini della Resistenza organizzata dai C.L.N. fino a partecipare alla lotta armata;
– l’opera preziosa, delicata, difficile di tanta parte del clero, quali pastori di un popolo martoriato, nell’ambito delle cui azioni si registrò peraltro anche il fenomeno dei preti partigiani.
Se non consideriamo attentamente tutto ciò, rischia di essere smarrito il significato ampio di guerra di popolo che possiamo attribuire alla Resistenza, in cui certamente la punta, importantissima, dell’iceberg fu quella dell’organizzazione capillare del territorio attraverso i C.L.N., da cui si dipartono la Resistenza armata, i G.A.P. (Gruppi Azione Patriottica ), le S.A.P. (Squadre Azione Patriottica), i gruppi di Difesa della Donna. E il bilancio nazionale di tutto questo fu di 44720 partigiani morti cui dobbiamo aggiungere 150000 vittime civili.
La Resistenza è una frattura rispetto al Fascismo, con una molteplicità di piani di riferimento (guerra patriottica, civile, di classe).
La Resistenza rappresenta rispetto al Fascismo una rottura netta, anche generazionale. Se è pur vero che molti aderenti alla Resistenza provenivano da una educazione fascista, perché allevati in una fisionomia statuale che li aveva fatti crescere in modo omogeneo al regime, ad un certo punto, specie dopo le leggi razziali del 1938, i dubbi avevano cominciato a crescere e pian piano al vecchio ed elitario antifascismo della clandestinità, del fuoruscitismo e dell’esilio si erano aggiunte fasce nuove, più consistenti, specie di giovani ed intellettuali che maturarono un dissenso, confermati in ciò anche dal fallimentare secondo conflitto mondiale e dalle sconfitte italiane nei vari teatri di guerra.
Sopravvenne così il 25 luglio 1943 con la caduta del Fascismo, apparentemente dovuta a cause tutte interne al Gran Consiglio del Fascismo stesso che aveva trovato sponda nella monarchia, il confuso periodo dei 45 giorni di Badoglio e, soprattutto, l’8 settembre 1943. Il dramma vissuto dall’Italia con l’8 settembre, la fuga del re, la presenza di un minaccioso esercito tedesco sul suolo nazionale, il ripescaggio di Mussolini da parte di Hitler e la fondazione della RSI misero ognuno di fronte ad una scelta: dopo un Ventennio in cui l’atteggiamento era fondamentalmente quello di “ubbidire” subentrava la necessità di capire, scegliere e schierarsi.
Non a caso lo storico Claudio Pavone, nel suo bel libro Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, parla a questo proposito di “moralità” perché proprio sulla base di essa ognuno era chiamato a collocarsi.
Non esistevano per la maggior parte coordinate politiche o partitiche precise. In quel drammatico quadro si determina cioè un processo che porta migliaia di giovani a ricercare una nuova moralità e nuovi valori, e al tentativo di operare una scelta politica capace di rompere con il totalitarismo fascista; lo choc rispetto al prima non poteva essere più grande e, nonostante si verificasse una vasta zona definita da alcuni storici “grigia” e da altri di “resistenza passiva”, una parte consistente del popolo italiano scelse.
Non solo, per la prima volta ci fu un vero e proprio protagonismo femminile. E la guerra fu sicuramente patriottica, perché si trattava di liberare l’Italia dai Tedeschi alleati con i fascisti della RSI che aveva ad essi ceduto vaste zone a Nord-Est, ma anche di classe, perché una notevole parte della Resistenza che combatteva i fascisti in quanto identificati con una classe privilegiata nutriva ideali di una profonda riforma dell’Italia in senso socialista o che comunque traguardasse verso mete sociali decisamente più avanzate.
La Resistenza fu anche però assai chiaramente una guerra civile. Su tale questione, madre di molte altre, occorre soffermarci. Il fenomeno della guerra civile corrisponde in genere ad una frattura che vede un’opposizione violenta tra cittadini dello stesso organismo statuale i quali si scontrano senza possibilità di sanare la loro irriducibilità (proprio perciò la guerra civile è definita “la più feroce e più sincera di tutte le guerre” dal grande latinista e rettore dell’Università di Padova Concetto Marchesi che Pavone, nell’incipit del suo citato saggio, richiama in modo molto significativo).
Ma la guerra civile del 1943-45 ha la sua origine e spiegazione molto prima, dal 1921-22, quando una minoranza armata – le squadre fasciste- che trova complicità in istituzioni dello Stato monarchico, impedisce ogni forma di vita democratica, sovente spazzando via gli oppositori in modo cruento e comunque reprimendo, una volta costituitosi il regime, con le così dette leggi “fascistissime”- tribunale speciale, processi politici, confino, carcere- qualsiasi avversario.
Se la maggior parte dell’Italia si adattò, una minoranza non rinunciò mai a mantenere ferma l’ idea di progettare uno stato diverso: rispetto a tale idea, seppure in modo diverso, si impegnarono le tre forze centrali della lotta clandestina, ovvero militanti del Partito Comunista, di Giustizia e Libertà e del Partito Socialista e sempre a tale idea non rinunciarono a pensare forze che, pur non attivando una struttura organizzativa antagonistica, coltivarono però in piccoli gruppi avversione o disomogeneità rispetto al regime.
L’8 settembre 1943 fu la concreta situazione in cui poteva essere colta l’opportunità a lungo perseguita: la Resistenza armata inaugurò così la fase insurrezionale della guerra civile, che partiva da lontano e che ora si configurava come lotta fra italiani antifascisti e italiani che si riconoscevano nella RSI.
Il ventennio dell’antifascismo e delle “resistenze” non può essere dunque staccato dalla Resistenza 1943-45, sebbene questa abbia segnato un punto del tutto nuovo per quantità e per modalità di lotta, perché fu lotta armata.
La stessa Repubblica Sociale di Mussolini non va vista solo come il prodotto dell’8 settembre, bensì come il tentativo di perpetuare in condizioni tragiche per l’Italia il Fascismo- basti leggere il programma della RSI- riproponendo di esso i tratti violenti e confusamente rivoluzionari dei primordi.
L’8 settembre e la vicenda resistenziale, insomma, non fecero che sciogliere i nodi ormai venuti al pettine di un conflitto che aveva un’origine lontana e che si concluse con la vittoria dell’antifascismo il 25 aprile 1945.
La Resistenza, i Partiti, i C.L.N., la Costituzione
La Resistenza è stata al suo interno molto variegata, come si può vedere dai programmi delle forze politiche che ad essa hanno partecipato e che, pur essendo fra loro molto differenti, si sono però date, specie dopo il rientro del segretario del PCI Togliatti in Italia e lo slittamento della questione istituzionale (se cioè l’Italia dovesse essere una monarchia o una repubblica) alla fine della guerra, una base comune di riferimento.
L’obiettivo prioritario è quello di cacciare dal Paese gli stranieri tedeschi, alleati con la RSI, ma non viene tralasciato il tentativo di delineare il futuro, tanto che già nel corso della lotta armata vengono esercitate vere e proprie funzioni di governo: basti pensare ai CLN (Comitati di Liberazione Nazionale) e al loro rapporto con il territorio.
I CLN dunque, e il dialogo spesso non facile in essi (anche perché si veniva da vent’anni di mancanza totale di dibattito politico), risultano essere un grande laboratorio di quella che sarebbe stata la Costituente.
Il primo CLN si formò già la mattina del 9 settembre 1943 a Roma: la riunione era presieduta da Bonomi esponente importante del prefascismo e capo dei demolaburisti, e ad essa parteciparono Scoccimarro e Amendola per i comunisti, Nenni e Romita per i socialisti, La Malfa e Fenoaltea per il Partito d’Azione, De Gasperi per la Democrazia Cristiana, Ruini per la democrazia del lavoro, Casati per il Partito Liberale.
Il movimento partigiano, all’inizio raggruppato in bande autonome, fu successivamente principalmente organizzato dal Comitato di Liberazione nazionale (C.L.N), diviso in C.L.N.A.I (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia), con sede nella Milano occupata, e il C.L.N.C (Comitato di Liberazione Nazionale Centrale).
Il C.L.N.A.I, che ha il suo braccio militare nel C.V.L. (Corpo Volontari della Libertà) con sede a Milano, il cui comando è affidato al militare Raffaele Cadorna, vice-comandanti Luigi Longo (P.C.I.) e Ferruccio Parri (Partito d’Azione), coordinò la lotta armata nell’Italia occupata, condotta soprattutto da formazioni denominate brigate e divisioni costituite su iniziativa del Partito Comunista, del Partito Socialista, del Partito d’Azione, della Democrazia Cristiana.Esistevano anche Brigate Autonome, composte principalmente da ex-militari senza un preciso riferimento politico, talvolta simpatizzanti per la monarchia.
Operanti al di fuori del CLN erano anche ulteriori gruppi autonomi di varia ispirazione. Si calcola, lo dice lo storico Giovanni De Luna, che sul totale dei reparti partigiani combattenti il 50% fosse comunista, il 20% di Giustizia e Libertà, quindi collegato al Partito di Azione, il 30% comprendesse socialisti, democristiani e autonomi, con percentuali molto diverse a seconda delle locali zone operative.
I CLN svolgevano dunque compiti di vero e proprio governo “politico” clandestino del territorio, reggendo in alcuni casi le così dette “repubbliche partigiane” che temporaneamente si formarono in zone liberate del Nord, ma anche rapportandosi alle formazioni partigiane militari (esattamente come uno Stato esercita il monopolio della forza tramite l’esercito).
Alla sempre maggiore importanza dei CLN e dei Partiti corrisposero nel 1944 il secondo governo Badoglio e successivamente i governi Bonomi, espressivi di tutte le forze politiche antifasciste, compreso quindi il PCI che nel 1944, con l’arrivo di Togliatti in Italia, aveva intrapreso una via completamente diversa da quella tradizionale dei partiti comunisti.
Esso si poneva a quel punto infatti come un partito “nuovo”, di massa, rivolto a contadini, operai, intellettuali, ceto medio progressivo e si proponeva di non separare gli obiettivi socialisti dalla costruzione in Italia di una democrazia progressiva, e quindi legata a mete sociali più avanzate.
È assai interessante rileggere, là dove si sono conservati, i verbali delle riunioni dei CLN e capire il crogiuolo di idee che essi furono. Il sistema dei Partiti del dopoguerra nacque in definitiva lì, un sistema che avrebbe visto anche una forte conflittualità successiva fra Partiti ma che proprio dall’esperienza unitaria dei CLN aveva tratto una lezione non da poco.
Gli stessi uomini che ad esempio dopo la rottura dell’unità d’azione resistenziale nel 1947 si trovarono su fronti opposti avevano però militato insieme in un momento decisivo per la storia della nazione, momento che non poteva essere dimenticato facilmente e che costituì perciò un riferimento almeno ideale anche nelle fasi delle polemiche più aspre, quando i CLN, ormai sciolti, dopo il governo Parri e con l’instaurazione del primo governo De Gasperi, costituivano una lezione passata e tuttavia lievito della Costituzione.
Infatti nel momento in cui si cominciò a lavorare dopo le elezioni del 2 giugno 1946 alla Costituzione, e poiché essa non poteva corrispondere ad una sola ideologia, dalle discussioni della Commissione dei 75 emerse un fecondo compromesso che riuscì a contemperare istanze cattoliche, socialiste, comuniste e liberali. Non fu facile.
Per parlarsi anche in quel momento in cui i Partiti del CLN erano ormai in allontanamento ci volle grande lungimiranza politica, in particolare da parte dei capi dei due maggiori partiti, De Gasperi e Togliatti. Essi seppero resistere alle pressioni che da un lato chiedevano a De Gasperi di chiudere subito i conti con il PCI, quasi tracciando una “cortina di ferro” attraverso l’Italia, dall’altra a Togliatti di persistere in un percorso rivoluzionario. De Gasperi si mosse preservando il significato profondo dell’unità antifascista come base della democrazia italiana, Togliatti con la sapiente formula: “fuori dal Governo, dentro la Costituzione”.
Piero Calamandrei, azionista, parlava non a caso della Costituzione come di una rivoluzione promessa al posto di una rivoluzione mancata, nel senso che le istanze più radicali di riforma sociale venivano in essa smussate, e tuttavia in un testo che risultava completamente nuovo rispetto alle Carte costituzionali del passato e che nel famoso articolo 3 superava decisamente l’astensionismo dello Stato liberale rispetto alla società, coniugando allo stesso tempo personalismo cattolico ed umanesimo socialista.
I Padri Costituenti avevano ben chiaro il fatto che il diritto, cioè la Costituzione, non poteva limitarsi a prendere atto di una situazione data ma che esso doveva intervenire sul piano delle cose per far avanzare le cose stesse verso un dover essere ben più elevato.
Sta qui il succo dell’art.3 che è in questo senso il passo più emblematico di quello spirito: “Art. 3.Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Lo Stato prefigurato dalla Costituzione esprime dunque una democrazia sostanziale, una democrazia effettiva, che si fa carico delle disuguaglianze che pure esistono, una democrazia aperta ad una pluralità di punti di vista, cui il cittadino concorre e tra i quali sceglie quando ci sono le elezioni, in virtù di una sovranità esercitata però nelle forme e nei limiti della Costituzione.
E tale Stato trova in quello straordinario momento la convergenza più alta e disinteressata da parte di Partiti differenti.