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Un mese e una fine anno tra ombre e luci per la Resistenza in IV Zona Operativa: dicembre 1944
A cura di Maria Cristina Mirabello
Svanita ormai la speranza di una rapida avanzata degli Alleati, l’anno 1944, in cui, a luglio, era avvenuta l’importante fondazione del Comando Unico e della I Divisione Liguria, premessa della IV Zona Operativa, quest’ultima formalizzata proprio a dicembre, moriva tra ombre e luci.
Nell’autunno-inverno 1944, pur nella consapevolezza dei rischi e delle enormi difficoltà, i responsabili politici e militari al vertice della Resistenza spezzina, non scelsero una decisa “pianurizzazione” degli uomini, non misero in atto la cosiddetta “politica delle tregue”, e, conseguentemente, si delineò una fasedifficilissima, quando l’avanzata alleata, deludendo le speranze ancora vive nel primo autunno, si fermò per lunghi mesi (arresto che risultò del tutto chiaro, se ancora ce ne fosse stato bisogno, con il proclama Alexander del 13 novembre 1944).
La situazione divenne, per motivi diversi, molto grave, tanto che la rischiosità degli incontri in città per programmare la lotta clandestina causò, come vedremo, lo spostamento del CLNp in montagna.
I reparti partigiani stanziati sui monti soffrirono, oltre che per le sempre incombenti, e talvolta attuate, numerose puntate nemiche (con perdite partigiane e nella popolazione civile), anche per i feriti, i morti, i catturati nell’ambito dalle necessarie azioni di guerriglia programmate. Non solo, le azioni urbane a carattere gappistico, in genere positivamente condotte da elementi provenienti dalla montagna, determinavano rappresaglie successive, sia nei confronti di chi era già imprigionato, sia verso la popolazione civile, sottoposta a rastrellamenti. Dolori e perdite, insomma, sia in difesa che in offesa. A tutto ciò si aggiunsero una serie di condizioni di fondo, difficilmente superabili: nonostante il rapporto tendenzialmente positivo con la gente, diverso cioè da quello determinatosi nello Zerasco e ben chiaro dopo il rastrellamento del 3 agosto 1944, occorre ricordare che le aree di stanziamento in montagna erano povere o estremamente povere, quindi mancava il cibo, era del tutto carente il vestiario adatto ad affrontare il clima rigido, frequenti e gravi erano le malattie, acutizzate dalle condizioni ambientali relative all’abitare, al dormire e all’igiene. L’unica nota positiva poteva essere che la fine estate e l’autunno avevano portato, come dicono molte testimonianze, un raccolto abbastanza consistente di farina di castagne e grano turco. Il cibo, parola ricorrente, insieme al termine fame, nelle memorie della/sull’epoca, consisteva in pattona, polentina dolce o salata (anche il sale era poco), castagne secche, se andava bene. Mancava praticamente tutto il resto.
Nonostante che una notevole parte della provincia fosse passata nel tempo sotto il controllo partigiano, la reazione nemica si mostrava ampia, dura e variegata. A essa si rapportarono, in un certo senso a viso aperto, i partigiani in montagna, mentre la repressione, con imprigionamenti, torture, deportazioni, si scatenò, grazie specialmente a trame delatorie, in città, dove, coordinata da Emilio Battisti, facente funzione di Questore, e dalla banda che si raccoglieva intorno ad Aurelio Gallo, si intensificò, se possibile, dal novembre 1944 in poi. Se a tutto ciò aggiungiamo i bombardamenti, abbiamo un quadro, sebbene solo approssimato per difetto, di quello che successe, sia ai partigiani, sia alla popolazione civile.
Va inoltre detto che drammatica era la situazione del CLNp, organismo politico al vertice della lotta resistenziale, visto che, dall’estate 1944, non poteva riunirsi nella pienezza dei partiti che lo componevano, e che ciò si protrasse fino al gennaio 1945, quando, per la prima volta, il così detto CLN di montagna tenne, in alta Va di Vara, la sua seduta plenaria. I membri arrestati nel luglio 1944 non erano stati infatti continuativamente rimpiazzati ad opera delle rispettive componenti partitiche, tanto che, ad un certo punto, i membri organici furono solo due: Pietro Mario Beghi “Mario”, socialista, Segretario del CLNp, e Antonio Borgatti “Silvio”, Segretario della Federazione provinciale del PCI spezzino.
Non a caso, Beghi e Borgatti presero la decisione, non facile, e più volte duramente rimproverata allo stesso Borgatti dal Triumvirato insurrezionale genovese del suo partito, di chiedere il trasferimento del CLNp ai monti, in zona partigiana, dove andò e rimase, in accordo con Borgatti, lo stesso Beghi, mentre il comunista Giovanni Rosso “Luigi” continuò a far da tramite soprattutto nel territorio spezzino, tra monte e piano, ma, se possibile, anche verso l’esterno, sebbene i contatti, mediante staffette, con Genova, fossero del tutto saltuari.
La lettura dei documenti consente, escludendo il vero e proprio tonfo del luglio 1944, di individuare il momento di massima crisi dellarete clandestina, a livello di pianura, tra novembre e dicembre 1944. Le date che scandiscono tale fase sono sicuramente il grande rastrellamento di Migliarina iniziato il 21 novembre e quello scatenato contro la “Muccini” il 29 novembre. Quest’ultimo, avvenuto ai margini della IV Zona, verso i confini della provincia, a Est, sfasciò la Brigata garibaldina “Muccini” che, nata formalmente il 19 settembre 1944, ma derivante da una lunga storia resistenziale vissuta, nella primavera-estate, fuori provincia, aveva dato brillanti prove di sé e che, pur dipendente dal Comando IV Zona, risultava geograficamente separata da esso. Per decisione comune dei responsabili, la maggior parte della “Muccini”, al comando di Piero Galantini “Federico”, passò le linee, portandosi nella zona occupata dagli Alleati; tuttavia, un piccolo gruppo, incrementato nel tempo, al comando di Flavio Bertone “Walter”, Commissario politico Paolino Ranieri “Andrea”, che fu poi catturato a dicembre, rimase, tra varie e difficili vicissitudini, a presidiare il territorio. La decisione di non smobilitare la “Muccini” fu netta da parte del PCI: tale partito manteneva perciò uno stanziamento sia a Est (anche in vista del futuro avanzamento alleato che non sarebbe così avvenuto nel deserto, cioè in un territorio passivo), sia nell’ambito della Val di Vara, dove poteva contare soprattutto sulla Brigata “Gramsci”, esito quest’ultima, del Raggruppamento Brigate Garibaldi, profilatosi nell’ottobre 1944, e comprendente i Battaglioni “Vanni”1, “Matteotti- Picelli” – “Gramsci”. Occorre precisare che il Battaglione “Gramsci” sarebbe stato ribattezzato, tuttavia mesi dopo, “Maccione”, per evitare confusione di nome con la Brigata omonima, ad esso sovraordinata.
I fatti di novembre e dicembre, tra cui va ricordato anche il drammatico rastrellamento avvenuto a Vezzano Ligure il 7 dicembre, causarono il necessitato portarsi oltre le linee di militanti comunisti, ormai “bruciati”: la sarzanese Anna Maria Vignolini, responsabile dei GDD, Filippo Borrini, responsabile del FdG, e, infine, Rina Gennaro “Anna”, instancabile staffetta e dattilografa. Tutto ciò determinò delle vere e proprie voragini nella complessiva rete clandestina, per cui quest’ultima risultò al momento dissestata, compresi i vari ciclostili, fondamentali per la produzione di materiale di propaganda e comunicazione.
Va inoltre ricordato che nell’ organizzazione operavano, con incarichi ragguardevoli, spesso quali Comandanti delle squadre SAP, esponenti del Partito d’Azione: uno di essi, Renato Mazzolani, Medaglia d’oro al VM, venne, in tale fase, arrestato e morì poi suicida, torturato nel carcere dell’ex XXI, nel febbraio 1945. Anche il mondo cattolico risultò falcidiato, a causa della cattura di numerosi sacerdoti nel corso dei rastrellamenti autunnali: tra essi, basti citare l’instancabile Don Mario Scarpato, e il forte aggregatore di forze giovanili Don Antonio Mori. Molte parrocchie risultavano quindi vacanti, proprio per la repressione contro il clero.
Antonio Borgatti “Silvio” si ritrovò, in una città di retrovia, solo, come egli dice, con la sua dattilografa, sebbene riuscisse poi, faticosamente, ai primi di gennaio, a riannodare le fila della cospirazione, che coincidevano con quelle della resistenza urbana2.
La situazione in pianura assumeva dunque tinte fosche, ma, nello stesso dicembre 1944, le formazioni partigiane della montagna, con la formalizzazione della IV Zona Operativa (Comandante: Mario Fontana “Turchi” o “Cossu”), tendenzialmente ormai stabilizzate sui territori loro assegnati, acquistavano una fisionomia più funzionale, adatta, insomma, a superare le dure prove future, che ci furono, di lì a poco, con il rastrellamento del 20 gennaio 1945, e che, però, nonostante l’imponenza e la sproporzione di forze e mezzi (20 mila nazifascisti circa contro due mila partigiani circa), non furono tali da scompaginare le forze resistenziali in campo, segnando, anzi, un irreversibile declino, nel nostro territorio, delle forze nemiche e un punto importante a favore degli Alleati. Non solo, arrivò anche, sempre a fine dicembre, grazie al Maggiore inglese Gordon Lett, incaricato, dopo la fondazione del Comando Unico, di tenere i rapporti con gli Alleati, una trentina di paracadutisti dello Special Air Service, inviato dagli Alleati con funzione di supporto riguardo ai sabotaggi.
Luci ed ombre, dunque, nel dicembre 1944, come recita il titolo di questo articolo.
Disegni tratti da: Sentieri di Libertà. Storie a fumetti, a cura di Fondazione ETS ISRSP; I.I.S.S. “L.Einaudi-D.Chiodo” – Indirizzo grafica; I.T.C.T. “A.Fossati-M.Da Passano” – Indirizzo grafica e comuncazione, I.S.S. “V.Cardarelli” – Liceo Artistico, La Spezia, 2024.
NOTE
1 Nel mese di gennaio 2025, uscirà, scritto da Maria Cristina Mirabello, anche un libro, voluto da ISR/ETS La Spezia, sulla storia del Battaglione “Vanni”
2 Borgatti, Antonio, Anni clandestini. Memorie dal 1904 al 1945, Edizioni Giacché, La Spezia, 2022, p. 95 (dove è citata, con il nome di battaglia di “Ivana”, la dattilografa). V. anche come la stessa “Ivana” descrive, per cenni, la situazione determinatasi (Gori, Vega “Ivana”, Mirabello, Maria Cristina , “Ivana” racconta la sua Resistenza. Una ragazza nel cuore della rete clandestina, Edizioni Giacché, 2013, p. 70).
Una giornata particolare: 21 novembre 1944. Il “grande” rastrellamento
A cura di Doriana Ferrato, Presidente ANED La Spezia
Premessa
La Spezia con la sua provincia è una delle città italiane più dolorosamente colpita dalla deportazione nazifascista.
Nel gennaio 1944 l’arresto, il trasferimento al campo di Fossoli e la deportazione ad Auschwitz segnano la sorte tragica degli spezzini ebrei… come dimenticare la piccola Adriana Revere di nove anni!
Nel marzo, al successo dello sciopero preinsurrezionale nelle fabbriche, seguono arresti e deportazione a Mauthausen di sindacalisti e organizzatori.
Nell’estate 1944 proseguono catture che si intensificano in settembre, molte dietro delazione in particolare nel quartiere di Migliarina, e raggiungono l’apice nel novembre 1944 con il “grande” rastrellamento.
“Nel ricordo che alla Spezia
il 21 novembre 1944
centinaia e centinaia di inermi
furono rastrellati e avviati
nei campi di sterminio nazisti
i giovani democratici
testimoniano
la loro consapevolezza
che la Libertà e la Pace
in cui vive il Popolo italiano
affondano le radici
nel sacrificio dei Martiri
e nella Lotta di Liberazione
1948-1988
XL Anniversario della Costituzione”
Lapide in via Michele Rossi a Migliarina (anno 1988)
a ricordo del rastrellamento del 21 novembre 2024
Migliarina antifascista
La situazione alla Spezia nell’autunno 1944 è drammatica: i nazisti con la complicità dei fascisti hanno operato contro le formazioni partigiane numerosi ed estesi rastrellamenti; nonostante ciò i gruppi partigiani resistono e l’organizzazione antifascista in armi continua il suo fitto lavoro.
La Spezia, come le altre città occupate dai nazisti dopo l’8 settembre 1943, viveva nel terrore, ma esisteva una buona organizzazione clandestina che lavorava per la liberazione. I nazifascisti ne erano a conoscenza e non risparmiavano uomini e mezzi per scoprirne piani, membri e direzione.
Molti cadevano nella loro perversa rete: chi veniva torturato, chi ucciso, chi mandato in carcere e deportato nei campi di concentramento come oppositore politico, quindi con la sorte segnata.
“L’ambiente antifascista più omogeneo e numeroso era il quartiere di Migliarina – Canaletto, zona prevalentemente operaia e di piccoli e medi operatori economici, in maggioranza antifascisti. Era in questa zona ove si lavorava più alacremente, ed era questo territorio che aveva dato buona parte dei giovani per le formazioni partigiane” (Tommaso Lupi, 1966)
Migliarina era quindi la zona più controllata dai nazifascisti; ed è proprio in quel quartiere che avvennero i più grandi rastrellamenti, con arresti, interrogatori, confessioni estorte e deportazione nei campi di concentramento nazisti.
Nella piana di Migliarina i partigiani si spingevano dai monti per colpire le forze nazifasciste che avevano nella zona posti di casermaggio e di comando e dove abitavano feroci “repubblichini” e noti torturatori fascisti, collaborazionisti italiani, fedeli e feroci, conosciuti comunemente come “Banda Gallo”, dal cognome del capo.
Quando nel maggio 1946 si celebrò il processo alla Banda Gallo, la Corte con Pubblico Ministero Gaetano Squadroni, decretò per tre della Banda la condanna alla pena capitale per fucilazione. Aurelio Gallo fu l’ultimo condannato a morte in Italia. L’esecuzione avvenne in Vezzano Ligure a Forte Bastia il 5 marzo 1947.
21 novembre 1944 – Il “grande” rastrellamento di Migliarina
Il “grande” rastrellamento del 21 novembre 1944 avviene per “rappresaglia a seguito dell’uccisione di un feroce repubblichino di Migliarina da parte di partigiani” (Tommaso Lupi, 1966). Il capo della Provincia Franz Turchi e i comandi locali pretendono dai camerati nazisti l’appoggio per operare il massiccio rastrellamento nel quartiere, così da mostrare agli stessi fascisti locali e alle SS come il controllo della città fosse ancora saldamente in mano alle forze di Mussolini e i complotti, imbastiti dai relativi responsabili contro l’ordine costituito, fossero facilmente neutralizzabili.
Al mattino presto di quel tragico 21 novembre le strade di accesso del quartiere vengono bloccate e presidiate da nazifascisti in armi.
Sono centinaia e centinaia gli uomini inermi fermati, portati nella vicina Flage, silurificio divenuto caserma migliarinese delle Brigate Nere, poi rinchiusi nella caserma “XXI reggimento Fanteria”, trasformata in carcere e luogo di tortura, dove i rastrellati e gli arrestati sono sottoposti a spietati interrogatori e sevizie “medievali” indicibili (unghie strappate, lesioni, bruciature e peggio…)
I familiari, all’oscuro della sorte dei propri cari, sono privati di qualsiasi contatto con i congiunti; solo pochi riusciranno a far pervenire all’esterno, in modo fortuito, qualche scarna notizia in un bigliettino clandestino.
La caserma XXI Reggimento Fanteria
Dopo gli interrogatori e le torture al “Ventunesimo”, gli arrestati subiscono un trattamento disumano nel trasferimento via mare dal molo Pirelli (oggi molo Pagliari) con motozattere e bettoline: destinazione Genova, dove sono rinchiusi nel carcere di Marassi e subiscono altri interrogatori con “colpi di nerbo e di calcio di rivoltella”.
Il grande rastrellamento non risparmia alcuna classe o condizione sociale e nessuna età: nelle celle a Marassi si ritrovano insieme sacerdoti, professori, artigiani, operai, industriali, commercianti, agenti e funzionari di polizia, impiegati, guardie carcerarie, pensionati, vecchi, ragazzi, persino il becchino del cimitero, accusato di consegnare le chiavi del camposanto ai partigiani per il ricovero durante la notte.
Molti dei rastrellati non facevano politica attiva, ma erano cittadini di fede antifascista e alcuni collaboravano clandestinamente in diversi modi con il CLN e con le forze della Liberazione.
Le accuse
Per tutti loro le accuse dei facinorosi della banda Gallo è appartenere al Comitato di Liberazione, quindi di aver partecipato a sabotaggi e decine di azioni armate col fronte dei “ribelli”: nel carcere di Marassi uno degli accusatori è ben noto perché si trattava di un sacerdote divenuto complice della banda di Aurelio Gallo e passato dalla parte degli aguzzini.
In quella circostanza i fascisti spezzini, per giustificare nei confronti dei nazisti e del governo di Salò una così imponente azione di rastrellamento, mettono insieme una documentazione falsa nei confronti degli accusati e priva di fondamento. I nazisti sospettano la messa in scena degli interrogatori, delle confessioni estorte con terribili sevizie e dei risultati dei confronti, così convocano dalla città di Imperia alcuni detenuti da tempo in quel carcere, e ad uno ad uno li mettono a confronto con ciascuno degli arrestati della Spezia. Quei poveretti “confessano” di riconoscere quei detenuti come loro fiancheggiatori in azioni partigiane compiute alla Spezia, fatto del tutto inverosimile.
Nonostante l’acclarata verità, gli interrogatori proseguono con la medesima ferocia costringendo i malcapitati rastrellati a firmare false confessioni di decine di azioni armate e sabotaggi, in pratica sottoscrivono la loro condanna a morte, differita nel tempo e perpetrata in un Campo di concentramento. I più restii a firmare sono massacrati di botte e sottoposti ad altre torture; anche agli ecclesistici non sono risparmiate sevizie e oltraggi, valga l’esempio delle sevizie subite dal padre domenicano Pio Rosso, parroco di Mazzetta, e da don Mario Scarpato, allora parroco di San Terenzo di Lerici, che ne subirà le conseguenze tutta la vita.
Per molti dei reclusi a Marassi il destino è segnato dalla partenza da Genova, scaglionata in più turni in vari giorni, proseguita con l’arrivo al campo di concentramento di Bolzano, dove si compie la sorte dei rastrellati spezzini con la deportazione, principalmente nel campo di Mauthausen.
Tutti sono internati come “politici pericolosi”, in quanto tali è assegnato loro il Triangolo rosso, come categoria da sterminare.E i più non tornarono.
Ogni trasporto, una strage
Circa un centinaio di spezzini sono deportati da Bolzano con il trasporto del 14 dicembre 1944 giunto il 18 dicembre a Mauthausen, pochissimi sopravvissero.
Il 1° febbraio 1945 dal campo di Bolzano parte un altro trasporto con destinazione Mauthausen. Su quel treno, tra centinaia di altre vittime, ANED La Spezia ha accertato 75 deportati migliarinesi o arrestati a Migliarina nel rastrellamento del 21 novembre 1944. Di questi solo 8 sono i sopravvissuti.
Pochi giorni segnano il confine tra morte e vita
Da quel 1° febbraio al 25 febbraio 1945 trascorre meno di un mese, sono pochi giorni che segnano il confine tra la vita e la morte.Infattiil 25 febbraio 1945 al campo di Bolzano è organizzata la partenza di un altro convoglio con la consueta ritualità: appello degli internati selezionati, incolonnamento, caricamento nei vagoni merce piombati dall’esterno, niente sedili, niente servizi igienici, né cibo né acqua.
La destinazione è Mauthausen, ma l’interruzione della linea ferroviaria causata dai bombardamenti alleati impedisce la partenza. Rinchiusi nei vagoni, i prigionieri attendono per giorni di conoscere la loro sorte, infine sono fatti rientrare al campo di concentramento di Bolzano. Questo ha segnato la loro sopravvivenza.
In quel trasporto, mai giunto a destinazione, si trovavano oltre cinquanta spezzini e tra quei sopravvissuti il padre di chi scrive, catturato nel rastrellamento di Migliarina alle 7,30 del 21 novembre 1944 all’incrocio (allora) di via Bragarina con via della Pianta, oggi via del Canaletto.
Migliarina non dimentica
Dipinto nella Chiesa di Migliarina in Memoria dei Caduti di Mauthausen. Sullo sfondo è rappresentato il muro di cinta di quel lager (anno 1982)
Stele nel sagrato della Chiesa San Giovanni Battista in Migliarina (2006)
Nell’iscrizione si legge:
“In memoria della deportazione migliarinese e spezzina del 1944 nei campi di sterminio nazisti”
Fonti
I deportati della Spezia nei campi di concentramento tedeschi durante l’occupazione nazista degli anni 1943-1945 –Monografia di Tommaso Lupi.
Terenzio del Chicca, I rastrellamenti a La Spezia del novembre 1944. Estratto da “La Spezia”-Rivista del Comune, 1955
Migliarina ricorda. testimonianze sulla resistenza e deportazione ’43-’45 / Scuola Media A. Cervi La Spezia, Daniela Piazza Editore, Torino 1996
Aldo Pantozzi, Sotto gli occhi della morte da Bolzano a Mauthausen- Museo storico in Trento, 2002
Dario Venegoni, Uomini,donne e bambini nel lager di Bolazano. Una tragedia italiana in 7809 storie individuali, 2004
Il video del convegno
Offerta Formativa anno scolastico 2024-25
La Fondazione ETS Istituto spezzino per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea ha pubblicato il piano dell’offerta formativa rivolta alle Scuole, per l’anno scolastico 2024/2025.
A questo indirizzo il dettaglio del piano.
Una nuova guida per ricordare: presentazione di “Sentieri della libertà 2”
Dai Giardini Pubblici al quartiere del Favaro di Migliarina
Percorsi per riflettere
Giovedi 26 settembre alle ore 17 presso l’Auditorium della Civica Biblioteca Beghi, alla presenza del Sindaco Pierluigi Peracchini, sarà presentato il secondo volume di “Sentieri della libertà” una serie di guide agili che raccontano, con l’ausilio di interessanti foto a colori e sintetiche schede tematiche, i luoghi, le azioni e i protagonisti della lotta partigiana e della deportazione dai Giardini Pubblici al quartiere del Favaro di Migliarina.
Un percorso urbano, che passa per la centralissima Piazza Verdi, cuore di una città che vide distrutto il 70% del proprio tessuto urbano a causa dei bombardamenti. Una piazza che fu testimone di episodi drammatici ma anche luogo di festa, nel ’45, nella giornata della tanto agognata Liberazione.
Tocca tra gli altri luoghi anche Migliarina, teatro del terribile rastrellamento del 21 novembre 1944, in cui le strade di accesso al quartiere vennero bloccate e i cittadini, lavoratori, gente comune che vi transitava furono fermati e trasferiti al famigerato “Ventunesimo”, dove molti vennero sottoposti a interrogatori, torture e sevizie e infine deportati nei campi di concentramento tedeschi.
Itinerari per riflettere, facili e adatti a tutti, che includono nel percorso anche aree verdi come i Giardini Pubblici, la zona del Castello San Giorgio e il Parco della Maggiolina, con interessanti notazioni anche sui monumenti e i palazzi più significativi e pregevoli che si incontrano nel percorso.
La collana – pubblicata assieme alle Edizioni Giacché – è un’idea del Presidente della Fondazione ETS -ISR, l’Istituto spezzino per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea, Patrizia Gallotti, tra gli autori di questo secondo volume assieme a Sandro Centi e Doriana Ferrato, Presidente ANED – La Spezia.
Il CLN spezzino durante la Resistenza
Pietro Mario Beghi ed Ennio Carando: chi ricopriva le cariche di Presidente e Segretario. Dati, problemi, ipotesi.
A cura di Maria Cristina Mirabello
Va detto innanzitutto che, riguardo alla questione delle cariche di Presidente e/o Segretario del CLN spezzino, non abbiamo dati sicuri risalenti a prima della vasta retata che lo travolse (giugno-luglio 1944).
Questo dipende fondamentalmente da almeno tre cause:
a) quando si scriveva, per timore che le carte cadessero in mano fascista e/o tedesca, non si usavano nomi riconoscibili, ma, rispetto alle persone, ad esempio nel PCI, partito dai cui archivi possiamo attingere molti documenti, si usavano perifrasi tipo “Il compagno che ci rappresenta nel CLNp”, ecc., evitando comunque di attribuire per scritto ai nominati le funzioni, specie se dirigenziali, ricoperte;
b) probabilmente, in molti casi, si evitava addirittura di scrivere e si lasciava alla sola memoria il compito di annotare le decisioni;
c) molti documenti, seppure siano esistiti, non sono comunque rintracciabili, o almeno, non lo sono al momento.
Quindi, per l’arco cronologico precedente al luglio 1944, noi avendo come fonti carte di archivio, e tanto meno verbali delle varie sedute, non sappiamo se il CLN prevedesse un Presidente e un Segretario, o solo un Presidente o solo un Segretario, e chi rivestisse tale funzione: abbiamo solo tracce sicure, o dichiarazioni, o investiture ufficiali successive, sebbene frequentemente discordanti tra loro o al loro interno1.
Non è il caso in questo articolo, che vuole essere essenziale, di ripercorrere le fasi del CLNp, dalla sua costituzione al ciclone estivo, o le vicende dei componenti che, per i vari partiti antifascisti, sedevano in esso, soffermandoci sulle circostanze in cui molti membri di tale organismo furono catturati o dovettero allontanarsi2. Da subito conviene dire, anticipando la problematica che intendo affrontare, come i due nomi, oggetto della mia riflessione, siano quelli del comunista Ennio Carando3 e del socialista Pietro Mario Beghi4.
In sintesi, mi domando: ci furono un Presidente e un Segretario nel primo CLN spezzino, o venne contemplata solo una carica? Quale? Rivestita da chi? Ed ancora: se ci furono un Presidente e un Segretario, quali personaggi ebbero tali funzioni? E, dopo lo scompaginamento del CLN, nell’estate 1944, che cosa possiamo dire sempre riguardo a chi tali funzioni svolse?
La questione va posta perché esistono, a tale proposito, tradizioni completamente diverse, anche se esse non si sono mai confrontate e tanto meno scontrate, pubblicamente, ma hanno proceduto, in parallelo, senza apparenti conflitti5, in armonica disarmonia.
Quando il CLNp venne praticamente a mancare perché, nell’estate 1944, la maggior parte dei suoi membri fu catturata, rimasero di fatto, fisicamente e organicamente sul campo, Antonio Borgatti “Silvio”, Segretario provinciale del PCI e membro per tale partito del CLN, arrivato alla Spezia ai primi di giugno 1944, e Pietro Mario Beghi, socialista, che aveva invece fatto parte da subito del CLN (rappresentandone, in un certo senso, la continuità)6.
Il rapporto di Borgatti con Pietro Mario Beghi, che probabilmente si avvia dopo i drammatici fatti di luglio, ma non immediatamente, è dapprima improntato a forte ed aspra criticità7, mutando però di segno, e diventando positivo, nello spazio di circa un mese, dal settembre all’ottobre8. Possiamo presumere, a proposito di tale significativa evoluzione, non solo che i due si conoscano meglio ma che Borgatti abbia modo di apprezzare in pieno l’opera fruttuosa svolta da Beghi, il quale, insieme al comunista Giovanni Rosso “Luigi”, ha faticosamente e pazientemente contribuito all’opera strategica di ricostituzione del Comando Unico, e quindi della I Divisione “Liguria”, dopo lo sfacelo di quest’ultima, causato dal rastrellamento del 3 agosto 1944 (e dalle dimissioni da Comandante del Colonnello Mario Fontana). Va anche detto che, sempre nella Relazione di ottobre, citata in Nota, Borgatti parla di Beghi come Segretario del CLN.
Sappiamo poi che, vista l’impossibilità che il CLN riuscisse a tenere le sue sedute alla Spezia, essendo la città strettamente sorvegliata, Borgatti e Beghi devono prendere atto della “vacatio” oggettiva riguardo alle stesse nomine da parte di taluni partiti o della indisponibilità di alcuni membri designati, ma decisamente impauriti, a riunirsi in sede urbana, e, nel dicembre 1944, decidono di trasferire il CLN ai monti9, in zona partigiana, tanto che la prima riunione (con la pienezza delle componenti politiche) avviene a Varese Ligure il 15 gennaio 1945. Il CLN “di montagna” vede quale Segretario Pietro Mario Beghi, il quale aveva già assunto sicuramente tale funzione quando, a seguito delle drammatiche vicende estive, ne era stato ricostituito, in mezzo a mille difficoltà, un altro10. E Beghi rimarrà Segretario fino alla Liberazione.
Prima di passare all’ipotesi che intendo avanzare riguardo alle funzioni rivestite da Ennio Carando e Pietro Mario Beghi nella fase del CLN spezzino che va fino a luglio 1944, e alla funzione svolta da Beghi dopo la liquefazione di esso, osservo che in nessun passo delle Relazioni di Borgatti al Triumvirato insurrezionale ligure del PCI, si fa mai cenno11 all’eventuale carica apicale ricoperta da Carando (il quale viene frequentemente denominato “Cesco”), ma questo potrebbe essere spiegato con le regole della clandestinità (Carando, quando Borgatti scrive, è, almeno in una fase, in via di allontanamento dalla provincia spezzina, e collocare accanto al suo nome una carica prestigiosa potrebbe essere pericoloso).
D’altra parte, Carando era molto stimato, nel PCI12 e fuori di esso13: personaggio di chiara fama, e questo risulta da molti ricordi di coloro che l’hanno conosciuto, era di certo eminente per gli studi, la passione nell’insegnamento, le caratteristiche ideali, morali e politiche, l’avere additato con decisione, al primo CLN spezzino, titubante sulla via da intraprendere, la necessità di agire, superando ogni attesismo.
La domanda che mi sono posta, anche sulla scorta di riflessioni uscite recentemente14, è allora questa: e se, in via ipotetica, senza irrigidirsi sulla questione se Beghi sia stato Segretario fin dal primo CLN o lo sia stato Carando, ragionassimo su un piano un po’ diverso, pensando che nel CLN potessero coesistere15 due cariche? Difficilmente Ennio Carando, semicieco, avrebbe potuto svolgere continuativamente quella di Segretario, perché non era in grado di fare verbali (ammesso che questi ultimi fossero fatti), se non in qualche modo aiutato, con tutto ciò che dal punto di vista della tutela clandestina riguardo agli altri membri dell’organismo poteva comportare. Quindi, per Carando sarebbe probabilmente meglio configurabile la funzione di Presidente, una sorta di “primus inter pares”, individuato come tale più dal punto di vista morale che burocratico (e per Beghi, fin dal principio, quella di Segretario). È difficile invece pensare alle due cariche riunite in una sola persona: in Carando per i motivi già detti e perché ciò sarebbe stato difficilmente compatibile con il ruolo del PCI nell’ambito di un CLN, in cui esistevano altri colori politici. In Beghi, perché non l’ha mai affermato.
Sicuramente, da dopo i drammatici avvenimenti del luglio 1944, non esiste un Presidente, ma c’è solo un Segretario, cioè Pietro Mario Beghi. E questo è spiegabile con la oggettiva situazione determinatasi: praticamente il CLN si era tanto assottigliato che non c’erano proprio le forze per assegnare, ammesso che prima ci fossero state, due cariche apicali. Gli unici personaggi in campo erano Beghi e Borgatti. E a Beghi “Fu convenuto di dare la carica di Segretario” (seguendo il documento, già citato, dell’Ufficio Stralcio). E Beghi scriveva, molto, per come deduciamo dai documenti rimasti e da quello che dice Borgatti al Triumvirato Insurrezionale comunista ligure16.
Beghi arriva dunque alla Liberazione come Segretario del CLN, nonché designato a rivestire la carica di Prefetto. Nelle prime elezioni che si tengono nel Dopoguerra riguardo al CLN spezzino, come già detto, egli viene poi formalmente eletto Presidente e diventa Segretario l’azionista Rino Visconti17 .
Ma, nel linguaggio corrente, essendo stata per lunghi mesi l’unica figura apicale del CLN quella del Segretario, tale denominazione potrebbe essere stata estesa a tutto l’arco temporale di vita del CLN stesso, per cui, in una parte dei documenti citati nel corso di questo articolo, e che costituiscono le fonti del ragionamento, si parla così di Carando, che nel frattempo è gloriosamente morto18, e sul cui rilievo morale e culturale, nessuno può obiettare, come Segretario.
NOTE
1 Tale varietà è riscontrabile anche in “Pietro Mario Beghi ‘Mario’ Prefetto della Liberazione”, promosso dalla Prefettura della Spezia, dal Comitato Provinciale Unitario della Resistenza, dall’ Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea (2013): in sezioni diverse, viene attribuita a Beghi o a Carando la funzione di Segretario (consultabile on line, v.)
2 Per una visione più ampia, dall’origine del CLN spezzino alla conclusione di esso, v. (Scheda a cura di Maria Cristina Mirabello). In questa Nota, basti ricordare che, nella drammatica fase di giugno (e soprattutto luglio) 1944, il CLN provinciale e il sotto Comitato militare di esso vedono: la cattura e la deportazione del liberale Rodolfo Ghironi, del democratico cristiano Isio Mattazzoni, dell’azionista Mario Da Pozzo (Mattazzoni e Da Pozzo moriranno nei campi di concentramento, mentre Ghironi morirà, al suo ritorno, nel 1946); la cattura e fortunosa fuga ai monti del comunista Renato Jacopini, che sarà tra i fondatori del Comando Unico nel luglio 1944; l’allontanamento, necessitato a causa della grave situazione, di Mario Fontana (ascrivibile alla componente socialista, Colonnello dell’Esercito, nel luglio 1944 viene poi messo a capo del Comando Unico e della I Divisione “Liguria”); l’allontanamento, data sempre la rischiosità degli eventi, del comunista Ennio Carando (Professore di Storia e Filosofia al Liceo Classico “L. Costa” della Spezia, sarà poi avviato verso il Piemonte, sua terra di origine). Dunque, Fontana e Carando scampano alle varie retate (e hanno destini diversi). Per il destino di Carando, v. Nota 9. Sempre in questa fase cadono altri importanti membri della rete clandestina, su cui il CLN si appoggia, come Amleto Maneschi e Renato Grifoglio. Per un approfondimento v.:
– Scheda su Mario Da Pozzo a cura di Maria Cristina Mirabello;
– Scheda su Mario Fontana a cura di Maria Cristina Mirabello;
– Scheda su Amleto Maneschi a cura di Maria Cristina Mirabello e
– Scheda su Renato Grifoglio a cura di Maria Cristina Mirabello.
3 Per un approfondimento, v. scheda su Ennio Carando a cura di Maria Cristina Mirabello.
4 Per un approfondimento, v. scheda su P.Mario Beghi a cura di Patrizia Gallotti e Maria Cristina Mirabello.
5 Una tradizione parte da Silvio Borgatti, Segretario provinciale del PCI, coevo agli avvenimenti spezzini dal giugno 1944. Egli ha ben conosciuto Ennio Carando, e, in un opuscolo a stampa, intitolato “Relazione del Comitato Federale dal 1939 all’agosto 1945”, datata 15 agosto 1945, redatto quindi nel Dopoguerra, in occasione del I Congresso provinciale del PCI, dice che Ennio Carando fu Segretario del primo CLN. Nel solco tracciato da Borgatti si colloca, parlando di Carando come Segretario, la Relazione dell’Ufficio Stralcio del CLN spezzino, firmata, il 20 novembre 1946, dal Presidente di esso, il comunista e antifascista di vecchia data Osvaldo Prosperi. Quest’ultimo, durante la Resistenza, aveva vissuto fuori dalla provincia spezzina, ma, rientrato, era stato eletto Presidente del CLN, il 22 luglio 1945, dopo che, risultando incompatibili la carica di Prefetto e quella di Presidente del CLN, assommate nella figura di Pietro Mario Beghi (Beghi è eletto Presidente, nel I Congresso provinciale CLN dopo la Liberazione, il 17 giugno 1945, mentre Segretario risulta Rino Visconti), Beghi era stato costretto alle dimissioni da Presidente. E, sempre su tale scia, troviamo, tra altri esempi, la comunicazione di Arnaldo Cotogni nel Convegno “Antifascismo e Resistenza alla Spezia (1922-1945), avvenuto nel 1985. Va notato che dal giugno 1945 esistono, per il CLN spezzino, sicuramente due cariche, Presidente e Segretario.
Accanto a questa tradizione se ne colloca un’altra, in genere più nota presso il vasto pubblico, secondo la quale il Segretario del CLN spezzino fu, fin dall’inizio, Pietro Mario Beghi. Lo dice, mai contestato pubblicamente, lo stesso Beghi in più documenti, e ciò viene frequentemente ripreso in numerose pubblicazioni, in cui, peraltro, spesso coesistono, in Capitoli diversi, due versioni riguardo alla carica di Segretario (v. Nota 1).
Non solo, altri, storici o appassionati di storia o protagonisti della stessa epoca, parlando nel Dopoguerra, spesso scambiano i termini di Segretario e/o Presidente, sia per Beghi che per Carando, facendo insistere su due aree semantiche contigue, ma diverse, l’uno o l’altro personaggio.
6 Secondo la Relazione dell’Ufficio stralcio del CLN spezzino (20 novembre 1946), dopo lo scompaginamento del CLN di giugno-luglio 1944 “Antonio Borgatti (Silvio) del Partito comunista sostituì il Carando nel CLN e prese contatto con il rappresentante socialista nel rifugio. Fu convenuto di ridare vita al CLN i cui membri affidarono la carica di Segretario al rappresentante socialista Dr. Beghi”. La parola “rifugio” si riferisce al fatto che Pietro Mario Beghi era stato costretto, per sfuggire a eventuale cattura, ad allontanarsi dalla città, andando a Monticelli (Fabiano-Comune della Spezia). Dell’Ufficio stralcio si è parlato anche nella Nota precedente.
7 Relazione di Antonio Borgatti al Triumvirato insurrezionale del PCI (Genova) del 15 settembre 1944.
8 Relazione di Antonio Borgatti al Triumvirato insurrezionale del PCI (Genova) del 20 ottobre 1944.
9 Questa decisione, che potrebbe essere definita della serie “A estremi mali, estremi rimedi”, fu criticata fortemente in sede regionale.
10 V. dopo.
11 Nemmeno documenti precedenti, interni al PCI, alludono, in qualche modo, a essa.
12 Brogliacci del PCI, non datati (v. AISRSP), di cui è sicuramente autore Borgatti, vedono per Carando, nella prospettiva di un rapido arrivo degli Alleati (che invece non arriveranno così rapidamente) incarichi (ma Carando, Medaglia d’oro al VM, arrivato in Piemonte, svolge lì la funzione di Ispettore nell’ambito delle Brigate “Garibaldi”, morendo il 5 febbraio 1945 a Pettinengo, Biella).
13 Pietro Mario Beghi dedica a Carando molti passi, da cui traspare stima e commozione.
14 Pagano, Giorgio, “Giugno-settembre 1944. La caduta e la rinascita del CLN spezzino e il ‘mistero’ sul suo presidente”, 18 agosto 2024.
15 In un certo senso i riferimenti a Beghi e a Carando talvolta legandoli alla funzione di Presidente, talvolta a quella di Segretario, possono derivare da confusione, ma anche dal fatto che, in effetti, così poteva essersi, in qualche modo, verificato.
16 Ulteriore interrogativo: ma perché, quando il CLN va in montagna, non si provvede a eleggere un Presidente, confermando il Segretario nella persona di Beghi, o scambiando i ruoli? In definitiva, a questo punto, i numeri c’erano…
17 Delle sue dimissioni dalla carica di Presidente per incompatibilità con quella di Prefetto si è detto alla Nota 4.
18 Si tenga anche conto del fatto che nessuno, nel momento in cui Carando va in Piemonte, sa con certezza dove e che cosa faccia, per cui si può anche pensare che, in un certo senso, se avesse davvero svolto in antecedenza la funzione di Presidente del CLN, tale carica sia stata messa, per così dire, tra parentesi.
A proposito di Storia Contemporanea
di Maria Cristina Mirabello
Il libro Tra utopia e realismo. Appunti sul Sessantotto, uscito nel 2024 per le Edizioni ETS-Pisa, a cura di Giorgio Pagano, è la raccolta della maggior parte delle relazioni tenute da vari studiosi nel corso del convegno “Il prisma spezzino. Il Sessantotto dalla dimensione locale a quella globale”1, convegno a sua volta innestato su una ricerca ad ampio raggio che, portata avanti negli anni precedenti, aveva prodotto un libro2.
Questa recensione non può trattare analiticamente i densi saggi3 che compongono Tra utopia e realismo. Appunti sul Sessantotto, ma vuole soffermarsi innanzitutto sul titolo che il curatore ha scelto, per sintetizzare poi alcuni spunti suggeriti dalla lettura dei vari Autori.
Il titolo che Giorgio Pagano ha dato al libro del 2024 è diverso da quello che aveva caratterizzato il convegno del 2022: quest’ultimo si richiamava infatti, più direttamente, alla precedente complessa ricerca di base4, la quale, pur collocando i materiali raccolti in un vero e proprio mosaico inquadrato in coordinate nazionali e internazionali, si focalizzava, tuttavia, fondamentalmente, sul territorio spezzino e zone contigue a esso, riguardo a geografia o ambiti culturali, con particolare riferimento alla Toscana e all’Università di Pisa. D’altra parte, i lavori del convegno, nel marzo 2022, avevano, in un certo senso, già abbondantemente travalicato il concetto, peraltro utile, di “prisma spezzino”5, per acquistare la dimensione di una riflessione a tutto campo sul Sessantotto.
Senza pretendere di spiegare le intenzioni che hanno portato il curatore Giorgio Pagano, il quale, nella sua Introduzione (pp.9-13), sottolinea, peraltro giustamente, gli aspetti di continuità tra la categoria interpretativa di “prisma spezzino” e Sessantotto in generale, a scegliere il titolo del 2024, vorrei fare alcune osservazioni sul binomio “realismo” e “utopia”, dicendo che esso si addice a una essenzializzazione del Sessantotto in generale.
Infatti, che cosa c’è di più realistico dell’utopia che, rivendicando altri luoghi e altri tempi, da quelli che ci offre un presente non condivisibile, e al quale vengono perciò opposte visioni “altre”, offre una speranza di cambiamento? E che cosa fu il Sessantotto se non un’utopia che traeva spunto dalla realtà ma che non riuscì a tradursi in realtà? E perché ci fu tale esito?
Nella instabile miscela di tanta-poca utopia e, complementarmente, di tanta-poca realtà (compresa la difficoltà di individuare categorie sufficientemente unificanti e capaci di incidere nel vivo pulsare dell’epoca), sta probabilmente l’essenza di una stagione, i cui caratteri non sono riconducibili a un profilo omogeneo, tanto che essi emergono in tutta la loro pluralità, storica e di interpretazione, dai saggi che compongono il libro. Saggio dopo saggio, attraverso una navigazione che lascia pochi spazi a certezze, ma che ci rende più ricchi di dubbi e conoscenze, riusciamo così a individuare alcune problematiche di fondo, per guardare dall’oggi all’ieri, ponendoci domande.
Quell’ieri fu totale discontinuità o si inserì, a sua volta, entro un cambiamento che solo a un certo punto divenne rottura? E questa rottura, per molti versi spontanea, una sorta di presa di posizione esistenziale diventata immediatamente politica, evidente, di massa, a livello, per la prima volta, soprattutto giovanile, e, vera novità, studentesco, quanto fu accompagnata da una sufficiente nuova categorizzazione da parte di chi aveva fino a quel momento rappresentato le istanze politiche di cambiamento, ma anche quanto le categorie assunte da chi si ribellava subirono la fascinazione di quelle vecchie? E perché?
Il saggio6 di Giorgio Pagano, in coerenza al titolo del saggio stesso, mette in rilievo come il Sessantotto, lungi dall’essere un’esplosione repentina, venga da lontano , soffermandosi sul Sessantotto degli inizi (e sulla sconfitta da esso subita), un movimento che l’Autore, sulla scorta di Edgar Morin, definisce come “sovra e infra-politico”, “totalmente libertario ma sempre con l’idea di fraternità onnipresente”, il cui principio animatore fu la presa di parola per chi fino ad allora era stato silente, la creatività, la fratellanza, e il cui sogno risultò poi infranto a causa “del ritorno alla dottrina, alle vecchie nozioni, ai vecchi strumenti organizzativi”. Un Sessantotto, dunque, che nasce e muore velocemente, e che dura non oltre un anno, dal 1967 al maggio successivo. Pagano si domanda se potesse andare diversamente e afferma che, sicuramente, il pensiero di Gramsci (che allora mancò) sarebbe stato prezioso sia per interpretare quella che fu una rivolta morale, sia per dare una forma etico-politica umanistica ai processi di modernizzazione che erano in corso nella società italiana, ritenendo che talune domande siano più che mai attuali oggi, quando “Ci serve una reazione culturale umanistica all’avvento di un mondo tecnicizzato e disumanizzante”.
Di movimento globale, e delle ragioni di esso, in un ampio contesto internazionale, cui fa specifici e argomentati riferimenti (corredati da numerose immagini), parla Marcello Flores7, il quale, dopo avere offerto una panoramica circostanziata, anche all’indietro nel tempo, si focalizza poi sul Sessantotto e sul fatto che, a suo parere, nel corso di esso, i movimenti che l’hanno caratterizzato “Dopo una prima fase fortemente originale e antiautoritaria sembrano retrocedere verso una più rassicurante tradizione, secondo logiche che sono prevalentemente quelle di ritrovare nel passato gli elementi caratterizzanti la rivoluzione… Nessuno di questi gruppi e di queste tendenze ha però la capacità di individuare una modalità di rivoluzione di tipo nuovo…”.
Luisa Passerini8 riflette sull’ampia gamma di significati (e applicazioni) assunti dal concetto di “lungo Sessantotto” e di “post Sessantotto”, quest’ultimo talvolta modificato da alcuni in “lunghi anni Settanta”, sulle piste che si aprono per una storia comparata e sulle direzioni di ricerca perseguite in più campi, a livello inter e transdisciplinare, compresa la funzione sull’immaginario dei media, con puntualizzazione della differenza tra concetti di “attivismo” e “artivismo”.
Di un punto nodale riguardo al Sessantotto si occupa Chiara Dogliotti9, la quale, riferendosi solo all’Italia e al “breve Sessantotto”, distingue le accezioni in cui può essere inteso il rapporto tra violenza e Sessantotto. Riconoscendo che, senza dubbio, l’attentato di Piazza Fontana a Milano, ha segnato un discrimine tra prima e poi, Dogliotti, non concorda su di esso come momento di “perdita dell’innocenza” da parte dei gruppi extraparlamentari. L’Autrice evidenzia così l’impossibilità di distinguere nettamente tra violenza difensiva e violenza offensiva, osservando che “pacifismo e fascinazione per la violenza” convivono nel movimento di “contestazione”, come si può notare nelle imponenti manifestazioni connotate da pratiche non violente ma anche dalla “fascinazione estetica per la figura del guerrillero di cui Ernesto Che Guevara costituisce l’esempio più famoso”, sebbene si tratti “principalmente di una violenza teorizzata, propagandata e celebrata, ma non agita”. In definitiva, dice Dogliotti: “Proprio nell’opposizione tra la presa di parola, tratto caratterizzante il Sessantotto e il movimento da esso scaturito, e la sconfitta della parola, insita nelle pratiche armate della stagione successiva, si misura tutta la distanza tra i due fenomeni”.
Sul Sessantotto e i terrorismi riflette Giovanni Gozzini10, il quale, innanzitutto, mette in evidenza la difficoltà di dare una definizione scientifica del fenomeno. Secondo un filone interpretativo largamente passato nel dibattito degli storici italiani ci sarebbe un passaggio “Da una contrapposizione tra l’iniziale spirito ribelle ma pacifico della contestazione e la susseguente degenerazione settaria violenta dei gruppi organizzati”. Ma l’Autore ritiene che occorra essere molto puntuali nella declinazione del “repertorio delle forme di azione dei movimenti di massa” e gli attentati terroristici, per cui “Sarebbe un grave errore disporle su un piano inclinato senza rotture di continuità”. L’ultimo gradino, quello degli indagati per fatti di sangue legati al terrorismo, è costituito, infatti, in Italia, da poco più di quattromila persone. D’altra parte, è, a parere di Gozzini, assai debole l’interpretazione secondo la quale “Il terrorismo nasce in Italia dalla necessità di proteggere i movimenti di massa e la prospettiva rivoluzionaria dalla reazione violenta degli avversari”. La tesi del nesso inverso tra Sessantotto e terrorismi non regge né in una prospettiva di storia comparata né per l’Italia, nella quale ultima, peraltro, non c’è solo una risposta repressiva da parte del sistema, basti pensare alle numerose riforme sociali, (tra esse, lo Statuto dei lavoratori del1970) e a quelle in ambito civile, riforme quantitativamente mai approvate prima in così gran numero dal Parlamento italiano. In realtà, il fenomeno terroristico è molto complesso, e configurabile come “Una propaggine estrema del ciclo della soggettività che il Sessantotto catalizza: la idea che il singolo possa cambiare la storia, quasi anche da solo”. E per singolo si intendono anche i piccoli gruppi, cui appartiene la maggior parte delle azioni terroristiche avvenute tra 1968 e 2007 in un campione di 15 paesi, su cui hanno evidentemente incidenza anche fattori di globalizzazione culturale, che diventano veri e propri paradigmi. In questo senso: “I terrorismi hanno una loro storia autonoma che deve essere ricostruita”. Il terrorismo va insomma vista come fenomeno ciclico nell’ambito della storia umana. In conclusione, Gozzini dice che la domanda giusta da porsi sul Sessantotto è perché la maggior parte dei giovani, compresa la “Piccola minoranza mobilitata nei movimenti di massa e coinvolta nel culto ideologico della violenza, non ha seguito il terrorismo, e a tale domanda possono risultare diverse le risposte”.
Parla della contestazione dei cattolici Alessandro Santagata11, il quale circoscrive i termini temporali di essa tra due eventi, da un lato, a monte, il Concilio Vaticano II e, a valle, il Sessantotto, individuandone, per l’Italia, il carattere nettamente politico e il fatto che la contestazione cattolica non sia una semplice sfaccettatura di quella studentesca, ma un fenomeno ben più complesso. A suo parere “Il Concilio aveva fornito le pezze di appoggio tanto ai sostenitori del superamento della concezione neo-medievalista della ‘cristianità’ in favore di una ‘cristianità profana e democratica’, quanto a coloro che intendevano superare anche quello schema e separare definitivamente fede e identità politica”. Il problema andava ben oltre alla questione dell’unità politica dei cattolici, non si trattava infatti di moltiplicare i partiti di ispirazione cristiana ma di superare la figura, ispirata a Maritain, del politico cristiano, perché solo così poteva essere evitata ogni strumentalizzazione della religione da parte della politica e impegnare i credenti, insieme alle altre forze della sinistra, in una rifondazione culturale laica e universale della società. Santagata ripercorre così per l’Italia gli avvenimenti di quegli anni, seguendo più tematiche: quella più propriamente legata alla dimensione politica delle elezioni, quella riguardante le associazioni cattoliche e i così detti “gruppi spontanei”, il cammino delle ACLI. Il Sessantotto è stato, per tale complesso fenomeno, un momento di accelerazione ma anche di trasformazione, e, per certi aspetti, di rottura. Nascono così i “gruppi spontanei”, presenti soprattutto nell’Italia centro-settentrionale, che dibattono sul rapporto tra identità religiosa e appartenenza alla sinistra, contestando abbastanza rapidamente quest’ultima, per approdare all’idea di una “nuova sinistra”, pur mantenendo salde radici nel campo cattolico, come ben emerge dalle denominazioni assunte dai gruppi stessi (Maritain, Mounier, don Milani, Persona e comunità, Esprit).
Secondo l’Autore, a unificare le esperienze della contestazione cattolica a livello globale, c’erano almeno due immaginari, quello del ‘68 e quello del cristianesimo dei poveri e della pace, compresa la penetrazione delle teologie latino-americane. In tale ambito si affacciavano anche tematiche del tutto nuove, come quella della sessualità e della pillola anticoncezionale. In definitiva, secondo Santagata, “La contestazione dei cattolici è stata nella sua durata medio-lunga anche una delle sfaccettature del ’68, di cui condivideva la ricerca di un orizzonte politico nuovo e di una nuova società. Non per un’altra Chiesa, ma per una ‘Chiesa altra’”.
Riflette sul Sessantotto, su Marx, su Raniero Panzieri e sul ritorno al Capitale, Alfonso Maurizio Iacono12 ponendo l’importanza della “Ripresa de Il Capitale in un contesto come quello italiano nel biennio ’68-’69, un fenomeno particolarmente significativo a Pisa che si caratterizzò, a differenza di altre università e di altre città italiane e non solo italiane, quasi da subito e propriamente per l’attenzione politica verso la centralità della fabbrica e del lavoro operaio”. Iacono individua i tratti precorritori di Raniero Panzieri e degli intellettuali che egli raccolse intorno a sé nell’ambito della rivista “Quaderni rossi”, dicendo che essa ebbe il merito di condurre un’analisi del capitalismo italiano molto diversa da quella della sinistra italiana, avendone rilevato i caratteri di vero e proprio “neocapitalismo”, compresi gli effetti derivanti da ciò.
Secondo Iacono, fu la ricerca di Panzieri che costrinse tutti a rileggere non solo il Marx dei Manoscritti o dell’Ideologia Tedesca, ma quello de Il Capitale. Panzieri pensava che il capitalismo italiano non fosse infatti “straccione”, come lo definiva la sinistra dell’epoca, ma forte e pianificatore, e che ciò avesse conseguenze enormi sul piano teorico, per cui il rapporto ricchezza-povertà non andava più posto sul piano diacronico del prima e del poi, essendo del tutto coessenziale. Non solo, Panzieri si occupava in modo nuovo del rapporto tra partiti e organizzazione politica. È vero, dice Iacono, che, a partire dagli anni ’80 del Novecento cambia tutto e non esiste più la centralità della fabbrica, ma questo non significa non riconoscere a Panzieri l’importanza di un ritorno a Marx, contro ogni forma di marxismo revisionista o stalinista. Non solo, del pensiero di Panzieri rimangono, attualissimi, alcuni aspetti, tra essi il richiamo al Marx della IV Sezione de Il Capitale. Il limite di Panzieri sta, sempre a parere di Iacono, nell’individuare lo Stato come pura emanazione della pianificazione, non esistendo né una pianificazione totale né un’anarchia pura. Attuale è inoltre Panzieri per la questione inerente al rapporto tra dirigenti e diretti, nell’ambito di un’azione politica intesa come globalità.
La conclusione dell’Autore è che, se c’era un’istanza potente nel Sessantotto, essa era quella di un’altra democrazia, insomma, il richiamo a una democrazia diretta, oggi più che mai esorcizzata, visto che quella attuale “È una democrazia fondamentalmente oligarchica, teorizzata come tale e non lo è diventata casualmente”. In una postilla finale, Iacono riprende alcuni spunti da testi di Nicola Badaloni, con riferimento, tra gli altri, a Il marxismo di Gramsci del 1975, in cui Badaloni denota, da un lato, l’attrazione intellettuale di Gramsci per George Sorel, e, dall’altro, il fatto che poi Gramsci si volgesse all’elaborazione dei concetti di direzione consapevole, egemonia, rivoluzione passiva, con l’inserimento dello spirito di scissione. E Iacono, riferendosi alla propria esperienza di studente a Pisa, osserva che è forse proprio ciò che, a quel tempo, egli stesso, allora studente, e gli studenti come lui, chiedevano, quando rivendicavano l’importanza della rottura nella storia.
Secondo alcuni studiosi, conclude Iacono, la storia dei partiti di massa era iniziata nel 1848 e si era conclusa nel 1968, mentre “Badaloni sperava ancora che il ’68 non avesse segnato tale fine, ma anzi quasi l’inizio. Non è andata così”.
Massimo Cappitti sottolinea la comunanza di tematiche tra Günther Anders e il Sessantotto13, mettendo in evidenza anche come, in realtà, sia però mancata una collaborazione assidua, quale ci si sarebbe attesa, tra il filosofo tedesco e il movimento. Anders ironizza infatti su una serie di aspetti che caratterizzano il movimento pacifista, al quale lui stesso aveva partecipato, definendo illusorio donare fiori ai poliziotti, insulsa la pratica del digiuno, mentre va invece ripensato l’uso della forza. Dice tuttavia Cappitti che dalle riflessioni di Anders non si può trarre indicazioni per una politica significativa, perché il suo obiettivo è quello di sconcertare, suscitare angoscia per farci confrontare con un presente tragico, in cui il problema non è quello di un buono o di un cattivo uso della tecnica, poiché è proprio la tecnica che grava sul mondo e sull’uomo. Il mondo è infatti permeato da un totalitarismo morbido che rende superfluo l’uomo, il quale collabora spesso, entusiasticamente, alla spoliazione di se stesso. Infatti, all’uomo viene offerto un mondo già interpretato, da cui non può derogare, in cui il regime totalitario mostra un sembiante bonario, ma, proprio perciò, è tanto più feroce. I soggetti, modellati dal totalitarismo, nel tempo libero, hanno, a causa dell’industria culturale, paradossalmente, una libertà minore di quella di cui godono nel tempo di lavoro. Insomma, gli individui vengono plasmati in tutto, anche riguardo alla parola per dire il mondo che a essi è offerto, già spiegato.
Si sofferma sulla cultura comunista, caso italiano, democrazia di massa Luca Basile14, il quale, richiamando un libro-intervista di Pietro Ingrao a Nicola Tranfaglia, sottolinea: “L’idea è che la data periodizzante del ’68 se, per un verso, avvia un ciclo di lotte destinato ad essere definitivamente ‘battuto’ colla conclusione del decennio Settanta, per un altro, in effetti, coagula al culmine domande e spinte innovatrici sedimentate con la prima affermazione del ‘neocapitalismo’ che non troveranno mai sbocco in una soggettività storico-politica trasformatrice davvero all’altezza delle sfide squadernate. Il ’68, potremmo dire, ‘apre’ e ‘chiude’. Apre un processo -poi interrotto alla fine del decennio successivo- di appropriazione della ‘democrazia di massa’, ma volge anche subito verso il graduale indebolimento della forza e della produttività di alcune istanze sociali introdotte dalla stessa ‘contestazione’ e dal ‘sindacato dei consigli’”.
Su tale base l’Autore imposta un’ampia analisi concernente una serie di nodi: il rapporto tra PCI e “contestazione”, il fatto che da parte di quest’ultimo non sia stata però acquisita, in tutta la sua portata storica, la critica della democrazia per una modernizzazione di essa, riconoscendo tuttavia in Pietro Ingrao uno dei pochi dirigenti comunisti “Autenticamente legati alla lezione gramsciana, che intorno alla saldatura fra la stagione dei conflitti post ’68 e democrazia di massa aveva incentrato il proprio contributo, e che nel ’76, in virtù del nuovo clima era stato eletto presidente della Camera”, mettendo in luce come proprio Ingrao riflettesse “Sulla necessità di superare la ‘separatezza’ delle forme della politica” fissando nell’ampliamento e rafforzamento della trama delle assemblee elettive il primo precipitato dello sforzo in tal senso”. Secondo Basile l’approfondimento teorico forse più stimolante della linea accennata da Ingrao è da vedersi in uno dei maggiori esponenti del marxismo neogramsciano della così detta “scuola di Bari”, cioè Biagio De Giovanni e nel libro-manifesto del 1973 Mezzogiorno e intellettuali. Tuttavia, secondo Basile, il PCI mancò di “Fare tesoro di simili spunti, attardato su una visione ‘catastrofista’ dei cambiamenti in corso”, persistendo nel richiamo alla priorità del ruolo assoluto della classe operaia e nella tendenza a privilegiare l’autonomia del piano politico, commisurando ad esso il proprio ceto dirigente. Si era insomma esaurita, secondo l’Autore, la sintesi culturale operata da Togliatti. Si verificò quindi un vuoto teorico in cui il PCI si trovò stretto tra sconfitta di fatto del dialogo con la DC, causata dal rapimento Moro, l’accumulo di aspettative tradite e l’incapacità di cogliere i segni ormai maturi della crisi del welfare nazionale.
Riflette sulle ragioni di un movimento e su quelle della sua sconfitta Marcello Montanari15, Il quale, richiamando sia quanto detto da Paolo VI, il quale pronuncia nel 1978 l’omelia per Aldo Moro, sia lo stesso Aldo Moro nel suo discorso al Consiglio Nazionale della DC del 21 novembre 1968 e poi all’XI Congresso della DC, richiama la drammaticità dei tempi, individuata dal Papa e da Moro, in un processo di secolarizzazione che mette in discussione le fondamenta stesse della vita sociale. Secondo Montanari dal discorso di Moro si può ricavare che, se la secolarizzazione è segno della perdita dell’Autorità come Verità, questa presenza della Verità può esser ricostruita non attraverso la militarizzazione della Chiesa, non attraverso una politica-potenza, ma solo attraverso una democrazia partecipativa. E proprio a quest’ultima, osserva l’Autore, aspirano i movimenti giovanili dell’epoca che vogliono espandere la vita democratica attraverso la crescita e la diffusione delle facoltà di governo. Ma, secondo Montanari, è proprio l’idea di una democrazia partecipativa che impaurisce le classi dominanti. Insomma, Aldo Moro ritrova nel ’68 non una critica della cultura e della scienza ma le potenzialità di una riforma dei saperi, tematiche che riguardano il governo e la crescita della democrazia nella società industriale e di massa. Proprio perciò la figura sociale dello studente risulta essere rilevante e significativa, anche se l’interrogarsi su tale novità si interruppe, come dice Guido Crainz, richiamato da Montanari, travolto da una politicizzazione estrema che ridusse i conflitti a vecchi schemi.
Secondo l’Autore, infatti, la cultura dominante dei molti gruppi politici minoritari che animarono il post ’68 era la visione della centralità della classe operaia e della classe come soggetto precostituito rispetto allo stesso meccanismo di riproduzione capitalistica. Ma la stessa risposta del PCI, il quale aveva a sua volta un orizzonte operaista, fu debole. Da qui l’interrogarsi dubitativo del PCI sulla figura dello studente, e se essa fosse morfologicamente assimilabile a quella dell’operaio. Accadde così che anche nel movimento degli studenti prevalesse un’ideologia operaista. E questo successe perché la cultura del PCI era ancora quella della centralità della fabbrica, non riuscendo a capire che nella società dei consumi il problema dell’egemonia si giocava ormai su come e che cosa consumare. La domanda di nuova democrazia e di una democratizzazione dei saperi non fu perciò intercettata, o venne vista in modo riduttivo. Il movimento studentesco denunciava il fatto che il nodo era quello della riforma dei saperi, il ’68 poneva dunque il problema di una democratizzazione dello Stato, ponendosi come momento conclusivo di un cammino iniziato con la Costituzione. La posta in gioco dimostra le responsabilità di chi, nei Partiti di sinistra, non seppe comprenderla, e di chi, nelle organizzazioni minoritarie, volle spingere il movimento verso una ideologia rivoluzionaria. La secolarizzazione poteva essere combattuta attraverso una riforma dei saperi che il movimento operaio, però, non seppe cogliere e nemmeno lo fecero i movimenti giovanili, dimostrandosi troppo poco gramsciani.
Guido Viale16 osserva che, riguardo a quanto ha già scritto in due suoi libri precedenti, il primo17 uscito nel 1978 e poi variamente ristampato, anche in tedesco, il secondo18 uscito in due edizioni, ha ben poco da aggiungere, sottolineando come il ricorso alla memoria individuale per interpretare i fatti sia irrinunciabile, e riconoscendo tale caratteristica al libro Le ragioni di un decennio di Giovanni De Luna.
A parere di Viale, dopo la fine del ’68 si sono contrapposte due interpretazioni: una che lo vedeva come l’ultima manifestazione di un’epoca ormai trascorsa di stampo otto-novecentesco, caratterizzata da grandi soggetti collettivi e ideologie, l’altra che individuava in esso la prima manifestazione di una nuova era, con l’irruzione sulla scena della rivolta degli studenti, la figura del lavoratore della conoscenza, il cognitariato (proletariato della conoscenza), insomma, il così detto neo operaismo, dapprima dissolto nella Rete e poi nel magma indifferenziato della moltitudine. A parere dell’Autore, in ambedue le interpretazioni c’è un nucleo di verità, ma anche molte cose sbagliate che possono essere messe in luce interpellando i protagonisti. Sicuramente l’eclisse, cui è soggiaciuta la memoria del ’68, è dovuta alla dissoluzione di molte certezze del movimento stesso operata dal femminismo, che aveva svelato la componente maschilista e i presupposti patriarcali di esso. Ma la causa principale che ha fatto dimenticare il ’68 è il suo limite intrinseco: stava velocemente prendendo corpo un’epoca caratterizzata dal rapido deterioramento dell’ambiente e dalla troppo lenta coscienza di quel processo. Il ’68 non è stato insomma ecologista, anche se in quegli anni il pensiero ecologista compiva importanti passi.
Il ’68, in Italia e altrove, è limitato a un orizzonte antropocentrico e androcentrico, in un quadro fondamentalmente sociale, sebbene notevoli fossero le analisi che, rivolte al Sé, erano applicabili alla vita quotidiana di tutti, prima ancora che lo facesse il femminismo. In tale ambito secondo l’Autore “Il marxismo c’entra poco. C’entra l’antipsichiatria di Ronald Laing e David Cooper e soprattutto la psichiatria di Franco Basaglia. C’entrano, specie il Germania, le ricerche della Scuola di Francoforte sulla personalità autoritaria, anche se poi era toccato ai suoi autori, Adorno e Horkheimer, che non avevano saputo riconoscere nel movimento un frutto delle loro ricerche, fare da bersaglio alla contestazione studentesca” mentre aveva visto, a ragione, nel movimento degli studenti un inveramento delle sue elaborazioni, l’Herbert Marcuse di Eros e civiltà e di L’uomo a una dimensione. Occorre anche pensare, quali fonti, a Rudi Dutschke, alla poetica beat giunta dall’America, al rifiuto di andare combattere in Vietnam, ma anche alle pubblicazioni dell’Internazionale situazionista, che avrebbe ispirato la rivolta del campus francese di Nanterre. C’entrava, inoltre, un lungo lavorio in campo pedagogico, quello don Milani (Lettera a una professoressa) e di Paul Freire (La pedagogia degli oppressi).
Viale nega recisamente ogni contiguità tra il narcisismo competitivo e i movimenti del ’68 perché il primo nasce dall’affossamento del valore della cooperazione su un piano paritario, quella sorta di Felicità pubblica, definita da Hannah Arendt “Un momento magico in cui sembra che la liberazione individuale coincida con quella collettiva”, che invece fu tipica del ’68.
E comunque, poiché l’interno dei movimenti era famiglia, scuola e, per molti, la religione, proprio perciò quegli anni non possono essere ricondotti all’orgia di ideologia “marxista-leninista”, spesso tradotta in forme grottesche, da quelle assimilabili al libretto delle Guardie rosse, a ritratti di Stalin portati in processione. Il vero sostrato era dato dalla ribellione: gli studenti non erano spinti né dal partito né dall’ideologia né dalla storia, ma dal bisogno di prendere le distanze dall’autorità, della famiglia e della scuola, per costruire una vera fratellanza e sorellanza con i propri coetanei e coetanee. L’esterno del movimento aveva un alto e un basso. Il primo era la struttura classista della società, di cui scuola e università erano anticamera, e che andavano destrutturate con una lunga marcia attraverso le istituzioni, una presa di posizione antigerarchica. Il basso era la classe operaia e le lotte operaie, le quali avrebbero beneficiato di tale critica. Un seguito delle rivolte studentesche fu infatti la mobilitazione degli operai in fabbrica ritrovabile in più Pesi. E proprio ciò indusse il capitalismo a procedere nello sviluppo della fabbrica diffusa e nella fondazione della Trilateral, una rete di uomini più addentro al potere, nei tre gangli di esso all’epoca (USA, Europa e Giappone), per dare vita alla rivoluzione neoliberista.
Ma se il ’68 è stato una rottura della normalità, cioè di quello che viene chiamato sviluppo, ormai non si può prescindere dalla crisi ambientale e climatica che mette in forse il futuro di tutti. Vanno perciò riconsiderati i termini della lotta antiautoritaria, non può esserci emancipazione sociale senza la possibilità che i cicli fisici e biologici su cui si regge la vita di questo pianeta si riproducano e si rigenerino. “Ai binomi comandare e ubbidire, o oppressi e oppressori, tutti interni all’universo dei soli rapporti tra gli esseri umani sullo sfondo di una ‘natura’ inerte’, che non partecipa al conflitto, si dovranno sostituire binomi come dominare e subire, ovvero devastare e soggiacere…”, dunque, una visione ben più ampia.
Note
1 Svoltosi alla Spezia il 25 e 26 marzo 2022, per iniziativa dell’Istituto Spezzino per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea e dell’Associazione Culturale Mediterraneo,
2 G. Pagano, M.C. Mirabello, Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia, vol. I, Dai moti del 1960 al Maggio 1968, Edizioni Cinque Terre, La Spezia, 2019; vol. II, Dalla Primavera di Praga all’Autunno caldo, Edizioni Cinque Terre, la Spezia, 2021.
3 La pluralità di essi è ben connotata nella seconda parte del titolo: “Appunti sul Sessantotto”.
4 V. Nota 2.
5 Quanto il concetto di “prisma spezzino” sia difficilmente riducibile a un ambito meramente locale, è ben deducibile dal complesso materiale di due archivi, quello di Giuliano Giaufret e quello di Ganluca Solfaroli, che hanno costituito una importante documentazione per il libro di Giorgio Pagano e Maria Cristina Mirabello citato alla Nota 2. Tali archivi, successivamente acquisiti, per liberale dono dei proprietari, dall’Istituto Spezzino per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea, sono visibili, come titoli e contenuti di massima, al seguente link: www.isrlaspezia.it/altri-archivi/.
6 Gli anni Sessanta e il “Sessantotto degli inizi”, pp.15- 33.
7 Il contesto internazionale del Sessantotto, pp. 35-59.
8 “Lungo” Sessantotto e “Post-“Sessantotto, pp. 61-71.
9 Perdere la parola. La violenza politica e il Sessantotto, pp. 73-81.
10 Sessantotto e terrorismi, pp. 83-95.
11 La contestazione cattolica tra Vaticano II e Sessantotto, pp. 97-106.
12 Il Sessantotto e Marx. Raniero Panzieri e il ritorno a Il Capitale, pp. 107-117.
13 Günther Anders e il Sessantotto, pp. 119-123.
14 L’onda lunga del Sessantotto. Aspetti del dibattito su cultura comunista e “contestazione”, “caso italiano” e democrazia di massa, pp.125- 141.
15 1968. Le ragioni di un movimento. Le ragioni di una sconfitta, pp.143- 153.
16 Condivisione versus gerarchia. L’antiautoritarismo, nucleo duro del sessantotto globale, pp. 155- 169.
17 Il Sessantotto-Tra rivoluzione e restaurazione.
18 Con due titoli diversi: A casa. Una stori irritante; Giorno dopo giorno-50 anni di nuovi inizi.
Un mese particolare: Luglio 1944-luglio 2024, uno sguardo d’insieme
La rubrica “Una giornata particolare” cambia, il titolo, ma solo per questo mese, perché, in effetti, tutto il luglio 1944 fu un periodo particolare.
Nel corso di quel mese venne infatti strutturato il Comando Unico, anteprima di quella che sarebbe poi stata la IV Zona Operativa. Questo significò, tuttavia non senza varie e notevoli difficoltà correlate alla transizione da una organizzazione a maglie larghissime, praticamente senza maglie, a una forma decisamente più verticistica, il superamento della guerra per bande, fondata sul carisma di singoli capi-banda, anche coraggiosi e talvolta perfino temerari, che avevano compiuto importanti azioni, e risultavano, però, scollegati tra loro. La data di origine del Comando Unico, oggetto di interpretazioni diverse, è comunque collocabile nell’ultima decade del luglio 1944, nello Zerasco, probabilmente ad Adelano.
Si aggregavano in esso:
- la Brigata “Cento Croci”;
- la Brigata “Signanini”, rapidamente denominatasi “Vanni”;
- quel che restava del già Battaglione “Picelli”, il quale, dopo le drammatiche traversie intrecciate al processo del suo Comandante, Dante Castellucci “Facio” (v. poche righe sotto), assumeva il nome di Brigata “Gramsci”;
- la formazione che si sarebbe denominata Colonna “Giustizia e Libertà”: quantitativamente la più numerosa, aveva avuto i suoi primi nuclei, fin dall’inverno 1943, nelle zone spezzine dello Zignago (Torpiana) e, dall’autunno 1943, nel Calicese, comprese le afferenze con la Brigata d’assalto “Lunigiana”, che aveva fatto parlare di sé nella primavera 1944;
- il piccolo, ma significativo gruppo internazionale, che ruotava intorno al Maggiore inglese Gordon Lett.
La resistenza armata sembrava, con la nuova organizzazione, acquistare una fisionomia più organica, anche se il drammatico rastrellamento del 3 agosto 1944 avrebbe evidenziato numerosi problemi e messo a repentaglio la tenuta stessa delle formazioni, tanto che il Comando Unico, con modalità in parte diverse, sarebbe stato ricostituito, molto faticosamente, solo nel tardo settembre 1944, grazie a un’abile opera di tessitura, messa in atto da Pietro Mario Beghi “Mario”, Segretario del CLN spezzino e Giovanni Rosso “Luigi”, referente del PCI per le questioni militari e i rapporti tra monti e pianura.
Va anche detto, riguardo alle zone finitime, che sempre nel luglio 1944 si concludevano importanti esperienze di libertà, quali quelle delle zone della Val Taro e della Val Ceno: diventate nel giugno 1944 liberi territori, venivano sopraffatte dalla reazione nemica, per cui il 15 luglio 1944 i tedeschi occupavano di nuovo Borgotaro. Derivava da ciò una crisi profonda della Brigata “Cento Croci”, rapidamente però rientrata, grazie all’assunzione del comando di essa da parte di Federico Salvestri “Richetto”, tanto che la “Cento Croci” aderì appunto al Comando Unico.
Negli stessi giorni dell’avvio verso quest’ultimo (o della fondazione di quest’ultimo), dipendendo ciò dalla data che i diversi storici scelgono, si consumava, il 21 e 22 luglio 1944, la vicenda terrena di Dante Castellucci “Facio”, Comandante garibaldino del Battaglione “Picelli”, dipendente da Parma, condannato ingiustamente a morte da un tribunale composto da garibaldini, e fucilato.
Non solo, sempre nel luglio 1944, il CLN spezzino, che aveva sostenuto, in coerenza con l’indirizzo del CLNAI, del CVL, del CLN ligure, del Comitato militare di quest’ultimo, l’avvio del Comando Unico, veniva praticamente distrutto, a causa, probabilmente, sia di una debolezza precauzionale nella trama clandestina, sia di delazioni, cui seguirono numerosi arresti, la prigione e la deportazione per molti membri di esso, o l’allontanamento per chi non era stato arrestato.
Il CLN non si sarebbe ricostituito più, in città, nella sua pienezza, cioè con riunioni regolari e alla presenza fisica di tutti i membri dei partiti antifascisti, ma, ormai praticamente ridotto al solo Segretario, il socialista Pietro Mario Beghi, e al rappresentante del PCI, Antonio Borgatti “Silvio”, nel dicembre 1944, sarebbe stato avviato ai monti, tenendo lì la sua prima riunione, nel gennaio 1945, e rimanendovi fino alla vigilia della Liberazione.
Per un impianto cronologico generale di quei mesi v. anche “Breve cronologia della IV Zona Operativa“.
Sentieri di Libertà. Ecco il fumetto!
La scelta di tradurre in fumetti le tante storie rintracciabili nelle vicende della IV Zona Operativa1 è la finalità del progetto ideato da ISRSP e realizzato nel periodo ottobre 2023 – marzo 2024 grazie all’interesse del Dirigente USP – La Spezia e alla disponibilità dei Dirigenti Scolastici dell’I.I.S.S. “L.Einaudi-D.Chiodo” – Indirizzo grafica (prof. Emilio Di Felice), dell’I.T.C.T. “A.Fossati-M.Da Passano” – Indirizzo grafica e comunicazione (prof.ssa Paola Leonilde Ardau) e dell’I.S.S. “V.Cardarelli” – Liceo Artistico (prof.ssa Sara Cecchini), che hanno aderito al percorso formativo, su delibera dei rispettivi Collegi Docenti e Consigli di Istituto.
Il progetto è a cura di:
Fondazione ETS ISRSP
(Istituto Spezzino per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea)
I.I.S.S. “L.Einaudi-D.Chiodo” – Indirizzo grafica
I.T.C.T. “A. Fossati-M.Da Passano” – Indirizzo grafica e comunicazione
I.S.S. “V .Cardarelli” – Liceo Artistico.
Le/I docenti e le studentesse/gli studenti che hanno partecipato all’opera:
I.I.S.S. “L.Einaudi-D.Chiodo”: prof.ssa Simona Mori, prof.ssa Maria Pezzuto, prof.ssa Angelica Frugis; studenti: Anna Airaghi, Gianluca Broccini, Yassine Essaid, Greta Martina Ferdinandi, Sara Sadia Houmine, Sara Martini, Verona Meshi, Giada Perricone, Ersida Prushi, Karem Serva, Sabrina Tonarelli, Francis Ken Tulipas,Tiziano Tuvo, Sebastiano Vitali Lorenzini.
I.T.C.T. “A.Fossati-M.Da Passano”: prof. Maurizio Fiorillo, prof.ssa Giorgia Santi, prof.ssa Marta Borsi; studenti: Sofia Bonni, Emma Martinelli, Leonardo Rubini.
I.S.S. “V.Cardarelli” (Liceo Artistico): prof. Nicholas Lucchetti, prof.ssa Linda Ferravante; studenti: Connor Aquilano, Emma Borsetto, Gaia Callegher, Francesca De Matteis, Alessandra Laurencigh, Orielvy Moronta, Giorgia Pulinas, Viola Signoriello, Zoe Venturini.
La stesura delle storie ha visto la preziosa supervisione di Francesco Frongia, esperto fumettista, che ha tenuto, tra ottobre e marzo, dieci lezioni alla presenza di tutte le parti coinvolte così da mettere in grado, sia i propositori, sia gli attuatori, di capire meglio la tecnica e le ragioni del fumetto, e per facilitare la realizzazione delle trame selezionate.
Abbiamo aggiornato la pagina relativa all’iniziativa, per permettere a tutti di avere un’anteprima della storia a fumetti realizzata.
Addio a Vega Gori “Ivana”
Dopo una breve malattia si è spenta Vega Gori “Ivana”, protagonista della Resistenza spezzina. Siamo vicini a Maria Cristina Mirabello, vice Presidente dell’ISR e alla sua famiglia.
Vega Gori, ultima di tre figli, nasce a Casalmaggiore (Cremona) nel 1926, da genitori di origini toscane. L’antifascismo del padre, costretto a cambiare di frequente lavoro, spesso trasferendosi da un luogo all’altro, determina per la famiglia una situazione di grande precarietà. È così che i Gori, dopo molte peripezie, arrivano infine a Vezzano Ligure (La Spezia), dove si fermano. Ed è alla Spezia, dopo l’8 settembre 1943, che Vega, giovanissima, aderisce alla Resistenza, prendendo il nome di “Ivana”. Inquadrata nella Brigata S.A.P., da cui è congedata alla Liberazione con il grado di maresciallo, l’autrice, che opera proprio «dentro il cuore della rete clandestina», ricorda commossa la stagione della Resistenza come «la fase più importante della mia vita, quella che le ha dato luce, arricchendola degli ideali di libertà, giustizia, umanità solidale, che spero di avere in qualche modo comunicato a chi mi è stato vicino». Dopo la Liberazione “Ivana”, che lavora fino al 1949, si sposa con Giuseppe Mirabello “Apollo”, medaglia di bronzo al V.M. per la Resistenza spezzina e poi, fino alla prematura morte, funzionario-dirigente del PCI, dedicandosi completamente alla figlia Maria Cristina, coautrice del libro: “Ivana” racconta la sua Resistenza: una ragazza nel cuore della rete clandestina (Edizioni Giacché, La Spezia 2013).